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18.000 giorni: il pitone

foto di scena - Giuseppe inizio spettacolo - foto N. Cadeddu
[TEATRO]

foto di scena - Giuseppe inizio spettacolo - foto N. CadedduROMA- Ovvero, cinquant’anni. L’età di un uomo che avrebbe ancora molto da vivere e si ritrova invece al capolinea. Un marito-padre-lavoratore come tanti che perde l’impiego, la famiglia, il senso della ragione. E si ritrova sommerso da un cumulo di abiti dismessi, travolto dagli eventi.

Un Battiston sull’orlo di una crisi di nervi che domina il palcoscenico del Quirinetta – fino allo scorso 18 marzo, sulle musiche di Gianmaria Testa – con la sua mole e il suo carisma. Una presenza ingombrante che ci costringe a fare i conti con le nostre paure. Di sentirci inutili, di rimanere soli. Lo fa mettendoci tutto se stesso, come il protagonista portato in scena si era speso sul lavoro, sacrificando gli affetti, financo l’ultimo saluto al padre morto per un’inutile promozione. Una storia di frustrazione e (dis)illusione, affrontata dal punto di vista del postumo, del fantasma che non esiste più se non per il proprio dolore, invisibile ai cari e alla società, ma non per l’omino della pubblicità che continua a citofonargli per riempire la buca delle lettere. Una macchia di luce pronta a spegnersi nel buio di una scenografia essenziale, dominata da lampade che se si accendono è per rimarcarne la debolezza, foto di scena -  - foto N 017ridottal’artificialità nella sopravvivenza.

Un caos di pensieri e cose dove si insinua il dubbio, il sospetto che tutto e tutti si muovano ormai contro. Che il licenziamento sia dovuto alle trame di un giovanotto neoassunto. Il pitone, appunto. Quello che pian piano cresce, in silenzio, prendendoti le misure, per divorarti in un boccone. Finché di te non rimane che il vuoto. Lo stesso – di prospettive, speranze ed attese – che è da un ventennio fin troppo evidente. Sarà per questo che in platea si ritrovano giovani e adulti. Chi quel vuoto lo ha solo sfiorato e chi ci è caduto dentro. A mancare è semmai il senso di compattezza, come se la trama si perdesse in troppi rivoli, filoni secondari di una Storia che è la stessa – per dirla con l’unità di misura di Andrea Bajani, autore del testo – da 18.000 giorni. Da quando in Italia è mancato il futuro, e il tempo si è diluito in un eterno presente di grigio e parole logore. Un lenzuolo bianco su cui non siamo più capaci di scrivere, che serve solo a coprire le salme di chi, barricato dietro il ricordo di un’esistenza migliore, ostinato, resiste.

Matteo Mastrogiacomo

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