VII serata MArteLive 2008: il nuovo Morgan
Ultima esposizione?!
Nicola Caredda con perizia non freddamente calligrafica e umana partecipazione effigia dei soggetti patiti e malaticci, immagini di se stessi pensate da vittime della schizofrenia secondo l’ideazione dell’autore; costoro scontano il loro sradicamento dal reale solo attraverso una stasi enigmatica interpretabile come un anelito bloccato verso la poesia. I fondi monocromi su cui questi personaggi si stagliano sembrano assicurargli la sospensione in un vacuum edulcorato dall’arte. Hanno tutti la testa fasciata male, con ciuffetti di capelli che sporgono da sotto alle bende, come se fossero reduci oltre che regrediti all’infanzia, fossero rimasti feriti al capo in qualche guerra privata contro quelle emozioni che ora li hanno abbandonati. La fissità dei dipinti li scopre bambini alterati nel dominio d’una metafisica magica ma un po’ disadorna, tranne nel caso della bambina che, guardando lontano, tiene tra le palme delle mani la cima di un abete, parte di un boschetto incantato e capovolto che pende all’ingiù. La donna di un altro dipinto, invece, guarda altrove mentre, assorta, tiene per i piedi un infante che penzola a testa in giù, colpevolmente distratta dal pensiero folle di due colombi che con il becco le sollevano la collana ai due lati della testa come a compiere una assurda esaltazione araldica. Quasi laureato all’Accademia, Caredda ritiene che, in un’ottica di distacco dalla realtà fenomenica, “tutti sono pupazzi” ed i modelli e contromodelli imposti dai media non possono che fare contrasto e al contempo quasi fornire un motivo a certe forme di alienazione da sé. A conferma di ciò, in un’altro quadro anche i tre bambini con lo sguardo vitreo e vestiti con abiti disperatamente fuori moda sembrano in posa per qualche recita triste, come le capsule rosse sparse in terra sembrano confermare.
Andrea Cardia, giunto quarto alla scorsa edizione del Marte Live, ripropone la sua prassi operativa particolarmente adatta al contesto live stendendo con generosità il suo adorato stucco per poi imporre con piglio quasi scultoreo la presenza di forme ruvide con pennellate graffianti. La sua è una ricerca sui materiali che insiste su sostanze di origine industriale (stucchi, catrame, guaine) per dare una consistenza anti-accademica al suo stile vigoroso. Nel corso degli anni si è avvicinato a Basquiat, a Burri e alle sue combustioni, in alcuni casi è stato accostato a Julian Schnabel, ma ha sempre mantenuto la sua identità, dimostrando, come martedì 10, di saper improvvisare con profitto (dopo una lenta carburazione iniziale) con la sua visualizzazione im-mancabilmente materica e gestuale, restituendo di getto e con mordace ironia l’immagine stiliz-zata di un individuo “in divisa”, ovvero con quelle giacca e cravatta con cui alcuni si camuffano occultando la verità del loro intimo sentire. Lui invece no; nel corso delle sue tante sperimen-tazioni, racconta con orgoglio, ha anche “spaccato legni”!
Tommaso Arscone, genovese, lavora ad olio con tecnica sicura elaborando levigatissime immagini che sembrano estratte da riviste di moda ultra-patinate, ma con una profondità insolita, affidata non solo al bianco e nero che l’artista predilige, ma anche alle dimensioni insondabili suggerite dagli sguardi dei soggetti, e qui pensiamo anche, ma non solo, al dettaglio degli occhi neri di donna che Arscone andava definendo con precisione nel corso della serata. Questo artista riproduce con finezza anche particolari minuti, ponendosi non tanto come iperrealista ma come pittore “illusionista”, che mira cioè a riprodurre in un’armonia di luci ed ombre giocata su decisi contrasti, dettagli scelti non con freddezza ma con la tensione interiore di chi, nei nudi, nei personaggi decontestualizzati, nelle donne, nei volti (accuratissimo il ritratto di Miles Davis), cerca il mistero inesprimibile dell’esistenza, facendolo intuire dietro apparenze così intensamente esibite.
Roberto Falanga folleggia in un coloratissimo mondo surreal-pop, in cui alterna vari stili ricorrendo anche ad ardite citazioni, e all’inserzione di oggetti quali corpi di bambola e seghe da falegname all’interno dell’opera. Il cavallo morente di Guernica di Picasso diventa così un caval-luccio a dondolo, ed i due Eolo della Primavera del Botticelli soffiano sul volto di un coltivatore che si lascia rapire nel mezzo di un campo di grano definito da onde di colori caldi una sull’altra come un motivo ornamentale anni ’60, e dal riporto materiale di fili di raffia gialla in luogo delle spighe. I tre pannelli a cui ci stiamo riferendo fanno parte di una serie di 8 tavole ispirate da un disco di De André dedicato a sua volta ai personaggi dell’Antologia di Spoon river, e sono accompagnate in effetti, da testi poetici intitolati “Un chimico”, “Un ottico”, “Il suonatore Jones”. Falanga dichiara di ispirarsi a modelli piuttosto distanti come Caravaggio ed Escher, ma soprattutto al surrealismo di Dalì; il risultato è l’esplosione di un onirismo in technicolor a cui la drammaticità di certi momenti non evita lo sconfinamento in un kitsch trionfante, senza paura, che evoca senza raccontare.
(Marco Settembre)
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