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Arteterapia? Un Racconto parascientifico

[ARTETERAPIA]

Un giorno in una stradina vicino piazza Venezia, a Roma, incontrai un mio amico che non vedevo da tempo. Per festeggiare l’evento andammo in un bar, a Sant’Apostoli, a prendere un caffè. Sapendo della mia formazione e dei miei interessi, nel bel mezzo del più e del meno, di cui si parlava, e dei bei tempi vissuti, mi domandò: “Cosa pensi dell’arteterapia? Dimmi qualcosa, che mi ci sto appassionando”.
Io risposi: “Ne so poco, o meglio non ne so nulla, ma ritengo che sia sicuramente una cosa buona, anzi diciamo una cosa bella. Usare l’arte come… come… Non riuscii a dire: è bello usare l’arte come terapia della patologia mentale.

 

Avevo imparato che la parola terapia, in greco antico, significava capacità di assistere, curare e guarire; terapeuta, di conseguenza, indica colui che esercita tale capacità, purché essa sia riconosciuta ufficialmente da organi legalmente preposti a tale funzione. Non faceva una grinza: terapia indica la capacità di soccorrere, curare, guarire; terapeuta è colui cui viene riconosciuta questa capacità e quindi ha, per legge, la facoltà, la liceità ad esercitare tale capacità. Mentre Io avevo questi pensieri, davanti al caffè fumante in Sant’Apostoli, l’ amico, che mi aveva fatto quella domanda, mi guardava perplesso, e così continuò: “Ma insomma, me lo dici o no cosa pensi di questa arteterapia, e soprattutto se è una scienza valida o no; se è buona per curare le malattie mentali?” “Senti,” gli risposi, “te lo posso dire fra qualche giorno? Mi voglio informare meglio!”. “Ehi come la prendi seria tu!” aggiunse lui, “Bastava che mi dicessi sì, è valida o fa schifo”.

Consumammo i nostri caffè, ci scambiammo numeri di telefono e ci lasciammo con la promessa di risentirci per fare una rimpatriata. Io aggiunsi: “Anche perché voglio rispondere alla tua domanda”. “Si va beh!” fece lui ” era così, tanto per sapere” Cosi ci lasciammo. Mi rincresceva di averlo deluso. Del resto una delle poche cose buone che mi sono conquistato nella vita, è di non vedere il mondo in bianco e nero, o meglio, solo bianco o solo nero.

Non mi sentivo di dire che fosse una cosa buona, tantomeno volevo bocciarla senza prima essermi almeno un po’ informato.. Quindi, meglio sospendere il giudizio. Mi informai e trovai queste due definizioni, da me così riassunte:
1 l’arteterapia è una metodologia che con l’uso delle espressioni concrete, plastiche e visive ha l’obiettivo di prevenire e curare il disagio psichico
2 Arteterapia è un intervento di aiuto e sostegno alla persona mediante l’uso di espressioni non verbali, per lo più creazioni artistico-visive.

Volevo dare una risposta decente a quel mio amico, cui ero affezionato e alla cui stima tenevo molto.
Approfondii per vedere a chi erano rivolti i corsi formativi e appresi che potevano partecipare praticamente tutti, dagli psicoterapeuti riconosciuti, ovviamente, ai possessori di laurea ad indirizzo pedagogico o artistico, o in assenza di questa, bastava esser dipendente, da un certo numero di anni, di un servizio socio-sanitario, e via con requisiti del genere, (in un curriculum di un arteterapeuta, pur psicologo qualificato, trovai anche, riportata come nota di merito, una vittoria ad un torneo di calcetto. Giuro).

Ero sconcertato! Ed ora cosa potevo dire al mio amico, che ci teneva così tanto?
Prima di tutto dovevo essere sincero e soprattutto onesto. Secondo la legge possono legalmente esercitare la capacità di curare la psiche, cioè essere psicoterapeuti, solo laureati in medicina e psicologia e poi specializzati ed abilitati all’esercizio della professione, dopo iscrizione a relativo albo professionale. Sì va be’! Avrebbe obiettato il mio amico, ma quelli sono arteterapueti mica psicoterapeuti. È vero, ma la parola terapeuta vuol dire capacità, abilità e facoltà riconosciuta di curare, per cui la prima definizione che sopra avevo trovata, quella della cura e guarigione mediante produzione artistica dello psicodisagiato, nel caso in cui l’arteterapeuta non sia né medico né psicologo, deve necessariamente essere scartata.
L’esercizio della terapia psichica in Italia non può essere esercitata da altri. Se questi poi, come strumento per creare e dinamizzare una relazione terapeutica, scelgono l’espressione artistica, ciò costituisce libera scelta, all’interno delle loro responsabilità professionali. Per quel che riguarda l’aiuto e sostegno alla persona: non c’è terapia, chiunque può esercitarlo, purché ben addestrato.

“Sì, ma come glielo dico al mio amico” pensai, “che ci teneva così tanto all’ arteterapia? O almeno all’uso dell’arte come tentativo di uscita dal disagio psichico o come strumento per lenire e regalare, al sofferente che l’ha persa, la gioia di stare al mondo?”

Dovevo trovare una soluzione, dire a quel mio amico che l’arteterapia era un buona e bella cosa.
Misi su un brano musicale, Beethoven, la quinta sinfonia, col suo meraviglioso secondo movimento, e seduto in poltrona cominciai a sfogliare un libro di arte.
Mi imbattei nella Tempesta di Giorgione.

Sentivo di essere sulla strada giusta, ebbi una forte emozione, la tempesta mi sembrò un vero corrispettivo dell’ HYPERLINK “http://www.google.it/search?hl=it&sa=X&oi=spell&resnum=0&ct=result&cd=1&q=elettroshock&spell=1” elettroshock, ma sano, al contrario di quello. Una donna nuda che allatta un bambino, un uomo vestito, ma con le braghe gonfie di un sesso prorompente, in mezzo un fiume. Il mistero della nascita senza aureole e spiriti santi, né voglie del Signore, e il cielo squarciato da un fenomeno naturale, non da forze divine. Il mistero della nascita come il primo grande mistero, padre di tutte le conoscenze, legato alla sessualità, non al vento boreale né all’intervento divino; se poi qualcuno dice che quella è una Madonna allora è il quadro più blasfemo della storia, o il più realistico. Beethoven mi cullava, ed io non sapevo perché, ma quella mi sembrava la strada giusta per trovare un bella risposta per il mio amico.
Più avanti, si aprì un altro squarcio nel buio, nella mia testa: Il Concerto Campestre di Giorgione; subito dopo corsi a Manet, al suo Déjeuner sur l’herbe. C’ero, mi parve d’aver trovato, d’aver trovata una specie di soluzione, una bella storia da raccontare al mio amico. In quei nudi di donna, in quegli artisti, musicisti in Giorgine, pittori in Manet, forse c’era un bellissimo messaggio per poter collocare l’arteterapia tra gli strumenti più straordinari di intervento sulla psiche umana. Piano piano mi sembrò di avere in mano una piccola collana, non so quanto preziosa, sicuramente utile per me e il mio amico.

Pensai: in fondo vivere la vita è come scrivere un romanzo o dipingere un quadro o una serie di quadri. Per poterlo fare bisogna avere una idea, una storia da raccontare. A volte ci pare di non sapere cosa andiamo a raccontare, solo sentiamo il desiderio di farlo. Se dentro non avessimo una idea, più o meno chiara o nascosta anche a noi, nei ricordi, nei pensieri, nelle emozioni vissute; noi non scriveremmo nulla. Senza quelle immagini, senza quella Tempesta, senza il mistero del nostro rapporto col mondo, noi davvero non scriveremmo nulla. La malattia, il disagio psichico, è silenzio della mente e degli affetti, urlo della mente e respiro affannoso che ha perso col mondo l’armonia. Obiettivo del terapeuta è far prima spogliare (le donne nude che accompagnano gli artisti). Ma ancora egli così non cura, fin qui è un maieutico, diciamo aiuta a tirar fuori l’artista che c’è in ogni uomo, proprio perché ogni uomo ha la capacità di sognare, fantasticare, immaginare, rappresentare le azioni avvenute o le intenzioni; ma ha anche la capacità, ovviamente, di dimenticare, di cancellare le proprie esperienze, di rendere muta la propria mente.

Al di la della capacità di far diagnosi, quello che davvero può rendere il rapporto, la relazione, straordinaria e creativa è la dialettica tra i quadri che dipinge il terapeuta e quelli che dipinge il paziente, il disagiato. La dialettica tra le donne nude e gli artisti dei quadri di Giorgione e di Manet. Aiutare l’altro a spogliarsi, e poi aspettare che prenda a suonare, a dipingere: questa è la creatività del terapeuta. Come disegnare insieme su una lavagna condivisa, saper conoscere e riconoscere, sentire e vibrare per le immagini dipinte dall’altro, e insieme a lui dipinger un nuovo quadro, che non apparterrà a nessuno dei due e pure apparterrà a tutti e due: una opera d’arte. La psicoterapia è saper fare insieme una opera d’arte, saper dar coerenza ai sogni. Ecco, allora, sì, posso dirlo al mio amico, lo psicoterapeuta non solo deve essere sano, avere conoscenza, non precipitare lui nel silenzio dell’altro, nella disarmonia della mente, deve soprattutto essere creativo, ed aiutare il disagiato ad esserlo, a dipingere il suo passato prima, il suo presente nella relazione terapeutica, e il suo futuro nella sua libertà di andar via a colorare altri sogni, da solo, poi. Il terapeuta, il vero psicoterapeuta è un artista, deve essere un artista.

Ecco l’arteterapia, la vera arteterapia! C’entrava, c’entrava! Aveva ragione il mio amico che ci teneva tanto.
Il giorno dopo gli telefonai, lo invitai a prendere un caffè nello stesso bar, lì a piazza Venezia per riprendere quel filo, quel quadro che non avevo allora saputo dipingere insieme a lui. “Ciao” ci salutammo con affetto e ci sedemmo, ordinammo due caffè, ed io raggiante gli dissi: “Senti, sai, forse posso dirti qualcosa in più sull’arteterapia”. Lui mi sorrise e mi rispose: “No, sai, dell’arteterapia non me ne frega più niente! Che ne sai della ippoterapia?”

Rimasi a guardarlo esterrefatto, ma poi mi ricordai che lui, anche all’università, era sempre stato così farfallone, gli sorrisi e gli dissi: “Per ora poco o nulla, ma se vuoi, fra qualche giorno mi informo, approfondisco il tema, poi ci risentiamo e vediamo se ti posso rispondere, intanto può essere una scusa per rivederci”. “Sì, perché no!” fece lui, e poi cambiò discorso dicendo: “A proposito, ti ricordi di Luciana quel pezzo di f… che …” me ne raccontò due o tre delle sue. Ci lasciammo, poi, con la promessa che ci saremmo risentiti al più presto.

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