‘O Rom_ Vacanze Romanes
Commistioni. Percorsi. In teoria questi due elementi li si possono ricavare e dedurre da tutto ciò che accade ogni volta che metti insieme due o più musicisti a suonare.
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Commistioni. Percorsi. In teoria questi due elementi li si possono ricavare e dedurre da tutto ciò che accade ogni volta che metti insieme due o più musicisti a suonare.
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Vorrà pur dire qualcosa se resiste imperterrito ai decenni. Se se ne infischia delle trombonerie stilistiche, delle più improbabili “ultime grida” di tanta novità che non avremmo alcun bisogno di ostentare, se ci fidassimo almeno un po’. Se sembra non curarsi del suo tempo, o se per affacciarvisi sceglie le vie magnifiche ancorché tortuose dell’evocazione.
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Quel che probabilmente è successo ai redivivi Masoko non è poi rarissimo. Una decade di onorata carriera da hipster idols, la loro, uniformemente spesa tra finissimo gusto vintage per il recupero revivalistico-enciclopedico in chiave pop della new wave che fu (ma proprio TUTTA), riconoscimenti mai del tutto privi di fondamento ma spesso spropositati che li vorrebbero geni variamente compresi e/o purissimi paladini del per pochi, e soprattutto live a pioggia a dar sfogo a talento e stile.
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Poche cose possono essere difficili da inquadrare come i contorni dell’eterna questione della libertà autoriale di un musicista. O almeno: non per più di qualche minuto. Specie se ci si abitua all’idea di fondo per cui entrare in contatto con il mondo di ogni artista ripropone lo stesso problema di una traduzione: mentre lo si decifra, ci si rende conto che è piuttosto fisiologico che qualcosa finisca per andar perso.
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Possono non esserci molte cose più difficili che essere una band onesta. In che senso, dite?
Pensateci: avere un’immagine ( e – che non è la stessa cosa! – un immaginario) senza diventare degli sparapose da competizione; prendersi tutta la fatica di scrivere per creare un contatto con l’esterno senza mai tradire il principio di urgenza, verità e qui-e-ora, epperò ambire a vivere di questo come di un lavoro senza mai porsi come messia calati dal cielo per svolgere missioni per conto di Dio; avere uno stile, ma non essersi mai potuti (né voluti, né vivaddio dovuti) agganciare a questo o quell’estemporaneo fiumiciattolo modaiolo per avere altre orecchie all’ascolto.
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Lo chiamano new-prog. Sarà che i suffissi come new- (o il famigerato incubo della nomenclatura musicale dei primissimi anni Zero, il ben peggiore nu-) instillano in genere una certa qual istintiva diffidenza.
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Ci sono circostanze in cui ci si sente imperdonabilmente fortunati a scrivere di musica. Non tanto o non solo per i dischi (sì, non rompete: ha ancora senso chiamarli così) o le canzoni, o insomma per il loro contenuto (che alle volte decisamente sovraccarica quantitativamente le orecchie e rischia pericolosamente di farci concordare col buon Cristiano Godano che intervistato dalla nostra Chiara Macchiarulo notava la forbice che la diffusione digitale crea fra l’offerta musicale e la sua domanda): no, non è lì il (solo) motivo di questo senso di fortuna.
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E’ sempre una gioia discreta e cospicua, incontrando certa musica, ritrovare la familiare sensazione di normalità che fa dire “e ci voleva tanto?”. Anche quando poi a pensarci, beh… poco non dev’esserci voluto comunque.
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Emanuele Dabbono è un cantautore e scrittore genovese. Trentacinquenne, ha alle spalle un’attività musicale densa di grandi appuntamenti, esperienze estremamente formative (e anche dal forte richiamo mediatico: Cornetto Free Music Festival, Top Of The Pops, X-Factor, passando per altre non rare e felici ospitate televisive su scala nazionale) nonché umile e convinto impegno sociale.
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Dei ragazzi di cui vi parliamo stavolta si può dire subito una cosa: che prima di parlarvi del loro ultimo disco ci è venuta una gran voglia di ascoltarci gli episodi precedenti. Il che, le non frequentissime volte che capita, è una gran bella cosa.