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Disporsi allo spiazzamento: Muta Imago

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[TEATRO]

mutaimago sROMA- Colpiti da spiazzamento emotivo e sensoriale, tra le rovine del presente, custodi contro voglia di una rabbia che cova dentro senza trovare una tangibile valvola di sfogo, un più precisato nemico o quanto meno un lido che sia fonte di speranza, siamo partecipi di un comune (dis)sentire.

Il nuovo lavoro dei Muta Imago, presentato dal 26 al 28 novembre al Teatro Vascello per RomaEuropaFestival 2011, è un percorso di corpi e immagini in entropico smarrimento, senza più mura nelle quali abitare, saldi solamente nella loro corsa verso un indefinito punto di non ritorno, pronti a ricollocarsi da nessuna parte e per la salvezza di quello che non c’è più.
Non sapere cosa fare, una volta che manca la terra sotto i piedi. Una volta che ci è crollato tutto addosso senza preavviso. E senza forse la colpa del sentirci né abusivi né responsabili in questo mondo. In un palpitante inizio, con quel muro ruvido o e rugoso che copre la profondità di campo e poi inizia a battere come un cuore, ad agitarsi come membrana vivente, ed infine a venir giù fragorosamente, ci troviamo già ad un epilogo dal potentissimo impatto audio-visivo. Frana la parete, crollano le quinte dietro le quali ancora c’era forse la possibilità di nasconderci per cambiar in segreto – nell’intimità – il proprio abito strategico prima di entrate nella lotta scenica. Partiamo da dopo la fine.

Non sapere come fare. Ansiose macchine sceniche eterodirette, figlie delle Troiane euripidee, le quattro pedine muta imago rabbiaatlete dell’apocalisse che vengono fuori dopo il crollo, non si guardano mai in faccia, sembrano qui al servizio d’un destino che pecca d’assenteismo (Remember me and forget my faith canterà una di loro citando Purcell). Quattro solitudini o il riflesso di una sola, quella novella Didone che al principio lamenta in canto l’avvenuto sgretolarsi del suo mondo. Amazzoni con stivali da cantiere, non individui ma automi senza capacità di cooperazione e solidarietà, se non nell’acuirsi dell’attimo della rivolta e in quello della fuga.
Displace – nella forma ora presentata come passo finale d’un percorso biennale di ricerca – si dipana in una struttura tripartita, dal succitato rovinoso iniziale lamento funebre al precipitar poi nella frustrata furia animale della “rabbia rossa”, l’applicazione alla lettera della catastrofe, quel rivoltar inevitabilmente in peggio le proprie stesse condizioni, violenta fase di presa di coscienza di quel che non c’è più (raddoppiata nel brusco controluce che abbaglia lo sguardo fino a quel punto intorpidito dall’oscurità). Fino al vagheggiar indistinto un esilio forzato, un partire carichi solo delle proprie annacquate macerie, con una prua che rimanda ad un orizzonte lontano e indefinibile.
Tabula rasa della scena, tutto (il poco che c’è) è bene in vista. L’atmosfera è campale, non consente la permanenza d’alcun ingombro stabile. Un luogo desolato. Le quattro donne si muovono a fatica e con decisione senza chiari riferimenti visibili. Tra le ombre, i corpi ammutoliti, sempre più ansimanti e attoniti, sono guidati da una studiatissima e geometrica scrittura di luce. Una drammaturgia visiva segnata da una griglia-graticola-gabbia che acuisce la percezione del vuoto. Nella scena privata degli orpelli di qualsiasi modernità, nell’avvertire un certo eloquente stato d’impasse, il ripercorrere quegli schemi psico-somatici introiettati in anni di forzata militanza operativa- civile sembra restare l’unica alienante salvezza.

rabbiarossa1Una traiettoria ineluttabile. Manca la pienezza d’un percorso così come la certezza dell’incedere e la fermezza di una meta. Dopo la fine restano sagome solo intraviste, silhouette senza rimandi, che, come cani, cercano di fiutare quello che era il proprio territorio.
Simbolo, sintomo ed emblema della nostra (dell’arte e del vivere civile) condizione (molto, troppo condizionata) attuale. Lì dove si brancola nel buio, ci si dimena randagi nello spreco energetico, in uno stato d’assedio/d’agguato permanente. Costretti a restarci perché non c’è altro(ve). Nel bel mezzo del più critico spiazzamento recitativo, come quelle attrici costrette a non poter ri-vestire il loro ruolo, le loro competenze.
I Muta Imago colpiscono per come forte s’avverta in tanto spiazzamento/smarrimento il venir meno d’un tragitto evolutivo, d’una azione non vana, d’un orizzonte chiaro. È la logica e lo spirito del displacement, specchio macabro di chi si nutre del dubbio e non ha fondamenta sulle quali poggiarsi. Non più, se non come nostalgia di qualcosa di mai assaporato se non nella memoria di quelli che ci hanno preceduto, o di quelli che semplicemente hanno ceduto alla barbarie del presente, e di quel che (non) è stato ci hanno ceduto appunto solo le briciole-macerie d’un puzzle di cui non abbiamo mai avuto l’opportunità d’apprezzarne l’integrale.

Salvatore Insana

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