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Diego Iaia: l’Anti-age del simulacro

Lartista

[ARTI VISIVE]
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All’improvviso ci siamo personalmente resi conto di essere stati ad un palmo dal farci la maschera di cetriolo in faccia ed il senso di dissonanza cognitiva rispetto a certe nostre inclinazioni sartriane è stato violento! Ce ne siamo avveduti riflettendo su quanto anche noi, che a ventott’anni temevamo l’ingresso nei trenta, siamo almeno un po’ invischiati nell’operazione impossibile di ritardare il tempo dell’invecchiamento.

Ma – dico io – ci voleva la mostra di un talento come Diego Iaia per avvertirci del rischio del ridicolo? La sua esposizione personale si intitola in effetti “Anti Age” e si tiene al numero 40 di Via di Monserrato, dove insistono gli spazi di The Gallery Apart, da sempre aperti alla qualità della ricerca degli artisti e rivolti elettivamente alle proposte più concettualmente avanzate ed esteticamente rigorose. Nel caso di Diego Iaia, il cui rapporto con la galleria risale ai tempi della sua prima personale, un progetto a tema denominato “Le Brigate Rosse hanno ucciso Alighiero Noschese”, le opere in mostra assicurano al tema preso in esame una trattazione pluridimensionale che deriva dal fertile eclettismo dell’artista, già figlio d’arte, in quanto figlio di quel Piero Iaia che tra i Sessanta e i Settanta fu prestigioso autore di numerosissimi manifesti per altrettanti film tra i più significativi del periodo, da “Il conformista” a “Anima Persa”, da “La donna del lago” a “La casa dalle finestre che ridono”. Parlavamo di eclettismo, e “Anti age” persegue infatti, con continue traslazioni tra metafore del tempo esistenziale e metacomunicazione sulle pratiche artistiche, un continuo slittamento di significati, in un evidente isomorfismo rispetto alla frammentazione identitaria portata dal clima postmoderno. Se i valori ed i modelli di riferimento appaiono infatti cangianti e inafferrabili da tempo, è giusto dunque che l’artista più avveduto si confronti in modo serrato con l’unica costante della frenesia del flusso degli eventi con-temporanei e con la loro innaturalità, facendo perno sul monitoraggio critico delle stesse valenze dell’agire estetico, consacrato anch’esso alla produzione di finzioni. La riflessione più attenta è però una stratificazione del pensiero, e Iaia, andando controcorrente rispetto a tanta arte prodotta puntando sulla velocità di esecuzione e su una spontaneità talvolta coatta, si è preso tutto il tempo necessario per indagare sulla rappresentazione del corpo nell’arte e nella vita quotidiana e sui diversi livelli di falsificazione operati nella cultura alta e in quella bassa dell’estetizzazione diffusa, nonché sul dialogo stretto e implicito tra l’autore, i suoi rimandi più o meno ideali, il processo di creazione e l’output definitivo. All’interno del variegato e stimolante corpus di opere esposte, “Ralenti” appare meno in diretta correlazione col tema del trattamento del corpo e della sua immagine, ma sicuramente entusiasmante come saggio di esplorazione del tempo di composizione, di sprofondamento nell’essenza del fare arte; si tratta infatti di un programmatico “tradimento”, più che un omaggio, nei confronti di Jackson Pollock, un ricalco maniacale di un dripping del “campione” dell’ espressionismo astratto, riportato su una tavola di legno attraverso la tecnica dell’incisione con sgorbia, scalpello e trapano elettrico. L’artista, peraltro, al primo tentativo di Il manuale del falsariorealizzare quest’opera s’è scontrato con l’incurvamento della lastra di legno d’acero, trovandosi costretto a disfarsene passando poi all’ MDF, il legno sintetico che invece ha retto la laboriosa lavorazione, durata mesi. In effetti, tanto quanto la tecnica della sgocciolatura è gestuale, vitale ed eruttiva nei confronti dell’inconscio dell’autore americano, altrettanto il procedimento adottato da Diego Iaia è moviolistico, paralizzante, fino alla stasi assoluta e grave suggerita anche dalla pittura nero-lucida stesa su tutto il supporto, che si offre ad una instabile lettura percettiva col variare della posizione del fruitore nello spazio, stante la diversa penetrazione della luce ambientale tra i solchi nel legno, evidente metafora di un labirintico “rodimento” inconscio, il percorso a ragnatela di uno scavo interiore compiuto da un tarlo insistente. Più che una ipotetica espressione del pessimismo filosofico, declinato in una forma elegante, come una moda che in molti, dal tardo Ottocento, adottarono come posa, sembra configurarsi qui non il plagio ma la rivisitazione provocatoria, la duplicazione spenta e soffocante del viceversa esuberante inconscio pollockiano, una copia il cui statuto è però orgogliosamente dichiarato. È così anche per “Il manuale del falsario”, una costellazione di immagini incorniciate, che consta di fotografie prelevate da riviste di moda e poco o nulla elaborate, alternate, in un contrasto stridente e concettualmente assai creativo e tuttavia “necessario”, a fedeli riproduzioni di Iaia – in cui emerge la sua “mano” più accademica, di falsi disegni del ‘500 e ‘600 eseguiti e poi venduti come autentici da Eric Hebborn, uno dei più “celebrati” falsari al mondo, un personaggio che con la sicumera derivata dalla sua indubbia abilità, lasciava che fossero i critici ad attribuire l’autenticazione ai pezzi che egli presentava, un uomo il cui percorso di vita dai tratti dickensiani lo portò alla scomparsa grottesca a sessantadue anni, a Roma (dove si era trasferito negli anni sessanta), lasciando spazio – considerate le sue sfide “ideologiche” ai suoi stessi committenti, mercanti e case d’aste – a inevitabili congetture su un suo assassinio punitivo proprio a seguito della sua pubblicazione del “Manuale del falsario” oltre che della spavalda autobiografia. Ma torniamo all’opera di Iaia: l’operazione di copia della copia di un antico originale, sovrapposizione di strati sempre mimetici e al contempo esibizione di qualità che Ralentirestano rivolte “speculativamente” (nel caso dei falsari, in senso economico) al rimpianto di un aulico passato dei “valori” non ripercorribile, e che non si indirizzano verso una autonoma auto-definizione, viene accostata a quella della continua cura estetica del volto, sforzo di approssimazione a canoni olimpici vincenti ed intoccabili attraverso l’ossessiva e “creativa” correzione, levigatura, esfoliazione, reimpasto chirurgico e in ultima analisi mascheramento di una identità fragile, che soffre della sua stessa assenza nel tentativo affannoso di ispessirla con virtualità ed apparenze, nella logica, indicata da Baudrillard, di una perversa sudditanza verso i simulacri. Lo stesso Diego Iaia ha riconosciuto di essere lui stesso uno Zelig della pittura, di scoprirsi spesso impegnato a far finta di essere qualcos’altro: restauratore, artista, illustratore, perfino autista, facendo della necessità la virtù di un’identità sfaccettata. D’altronde già platonici e neoplatonici affermavano che l’artista copia una copia dell’idea, la matrice ideale degli oggetti, mentre Gombrich sosteneva che l’artista tende a vedere ciò che dipinge più che a dipingere ciò che vede, concludendo che se l’arte nasce nella mente,”ogni arte è concettuale”, tanto che l’anamorfosi già nel ‘600 trasformava la prospettiva da strumento di simulazione ad utensile che forgia delle allucinazioni (Quèau, 1986). Sulla scorta di queste ed altre riflessioni estetiche, Diego Iaia si è sempre distinto per voler soffermarsi con esemplare coerenza sul senso della sua espressività, laddove, lamenta l’artista, “nell’arte contemporanea spesso si lavora più a posteriori che alla fase progettuale”. Ancor più che nel mondo dell’ arte, però, è proprio nella cultura delle nostre società occidentali che si cerca spesso di invertire o almeno gestire il flusso del tempo che alcuni spot ci definiscono come reversibile in virtù di formule chimiche rivitalizzanti anche se in fondo agiscono soprattutto sull’ego ed in virtù di un transitorio effetto placebo. Ebbene, dietro questo attivismo intorno al look si intravede piuttosto distintamente la stasi, per non dire il ristagno, della “fine della Storia” come assestamento acritico ed anti-evoluzionistico sulle posizioni dell’ultra-capitalismo consumistico delle democrazie liberali dalle finanze virtuali. In questo scenario, la certezza di avere dubbi equivale a detenere una ricchezza non omologata, che si sconta però con la coscienza della crisi personale e transnazionale. La contrapposizione tra disegni che sono anche se mirabili, pur sempre copie di seconda mano, stadio terzo di un rifacimento esponenziale che potrebbe estendersi all’infinito, e la continua levigazione dell’incarnato nell’attualità modaiola, può significare che entrambi i momenti partecipano della secolare rincorsa a quel progresso che tra catastrofi epocali ci avrebbe condotto a questo algido stallo senz’anima, in cui dopo le epoche dell’essere e dell’avere, è l’apparire nello “spettacolo”, per dirla alla Guy Debord, che aliena l’uomo, di norma soggetto ad una reificazione capillare a cui invece Iaia si oppone appunto con un brillante detournement di testi visuali. Come surrogato soft degli interventi di chirurgia plastica, radicale e sempre Eterno presente 2011 scultura composta da resina legno specchio cm 140x60più diffusa via per l’inversione temporale, il trattamento della pelle più facilmente gestibile in proprio resta quello affidato a creme, cremini e fondotinta, e veniamo con ciò a “La carne”, opera in cui la superficie pittorica, godibilissimo trionfo dell’ informale materico, in quanto si fa qui metafora dell’incarnato, è interamente realizzato con fondotinta sciolto e raggrumato e sgretolato, su tavola, mostrando ironicamente il risultato “alternativo”, ma forse più reale del vero, dell’applicazione sul volto di innumerevoli confezioni di un prodotto con cui la gente quotidianamente stilizza se stessa in autoritratti concepiti allo specchio per una migliore presentazione della propria “facciata”. L’imitazione di incarnati più levigati, còlti sulle riviste patinate, si traduce in un’ansia di perfezionamento progressivo, utopia veteroilluminista che può condurre allo sgretolamento dell’autostima ogni volta che le carezze emollienti sembrano non raggiungere il risultato; ne sono testimonianza i centri concentrici impressi dal produttore dei fondotinta sul fondo delle scatole, che qui, spezzate ed incollate sul supporto, sembrano apportare una minima connotazione di vertigine autoipnotica a questa superficie crepata e decadente che sembra una porzione del suolo di qualche sito archeologico, a cui certe pelli avvizzite in cerca di un im-probabile rifioritura sembra lecito paragonare. Ideale complemento di questo discorso simbolico è l’installazione “L’artista”, composta da un video e da due quadri portati al “grado zero della pittura”, come riferisce Iaia parafrasando il noto saggio di Roland Barhes: questi, su un fondo piatto nero, ripropongono, come se fossero due lay out pubblicitari deprimenti, i loghi e i marchi del più usato prodotto per il make-up e del più comune pigmento per le Belle Arti, accostando così ancora una volta la prassi dell’imitazione del reale condotta attraverso l’Arte e la prassi dell’imitazione della bellezza altrui praticata attraverso il trucco. Il video è quanto mai esplicito, perché consiste nella riproposizione di una sequenza prelevata dal materiale girato per il film “Hands off TV!” del regista underground Frank Malone. In questa micro-scena si assiste ad un ringiovanimento da parte di una ragazza brutta, dalla pelle cinerea, che grazie a delle applicazioni di crema e fondotinta sul visage, migliora a vista d’occhio nel giro di pochi secondi, per poi di nuovo vedere deteriorarsi la propria immagine in un loop infinito sottolineato dal soundtrack, il finale di un brano di David Bowie, scelto ovviamente non a caso in quanto principale esponente del glam rock ed in generale maestro di trucchi e travestimenti. La bellezza e la bruttezza sembrano qui due lati della stessa medaglia, due poli scambiabili, tant’è vero che è facile immaginare come la stessa modella protagonista, in realtà di piacevole Senza titolo 4aspetto, abbia dovuto imbruttirsi con il trucco per poter interpretare questo ruolo, probabilmente usando, in quanto artista, il make up for make up artists che ormai tutti usano per pensare di fare della body art col proprio faccione. E l’uso del medium audiovisivo ci sembra anche rimandare al valore del visus come primo piano televisivo insistito e inespressivo (come nelle telenovelas) quale è stato teorizzato dall’antropologo Massimo Canevacci, ovvero come una maschera di perenne stupore, patologia fisiognomica che diventa codice linguistico, testa mozza che col prezioso imbellettamento promette la resurrezione del teschio, al di là del minimalismo, un trionfo dell’artificio sulla caducità della carne. Un differente dialogo tra scelta meditata dell’artista e problematiche dell’identità è rappresentato dalla serie degli “Untitled”, in cui la fatidica ricerca di Iaia sul ritratto è condotta con una tecnica che, simulando (ancora una “imitazione”) il collage, tecnica di solito piuttosto immediata e veloce, lo rallenta riproducendone con tempera e colore ad olio l’effetto, che tuttavia resta di notevole impatto, mostrando una (s)composizione di volti diversi, tutti in un bianco e nero che richiama l’austerità della ritrattistica borghese o delle foto d’epoca, ma, ancora di più, tutti impegnati a combattere una lotta per l’identità che sembra un puzzle schizofrenico, una superfetazione di tratti somatici in cui la coerenza del carattere si regge solo sull’aspetto formale della qualità chiaroscurale e neanche può giovarsi del puntello di un titolo. Il trattamento cosmetico qui è sostituito dall’analisi implacabile derivata vagamente da Bacon, ma ancora una volta praticata con un metodo maniacale, trattenuto, non immediato e gestuale come nelle opere del maestro irlandese; quasi una riproposizione dell’operazione di calco rovesciato compiuta su Pollock con “Ralenti”, ma trasferita nel territorio della ritrattistica. A conclusione del progetto, una mostra che si presenta come “una parodia della pittura”, come spiega l’artista, “ma non malevola”, forse un sistema di equivalenze problematiche, un discorso della pittura che interroga se stessa sulla propria collocazione nell’epoca della fiction totalizzante, si pone con la sua enigmaticità tridimensionale “Eterno presente”, una scultura consistente in una testa di resina color terracotta poggiata su di un plinto, ovvero un basamento a forma di parallelepipedo allungato, entrambi rovesciati in modo che la testa poggi su uno specchio rotondo posto come base. Avvicinandosi alla scultura e guardando in basso, nello specchio si ottiene la visione raddrizzata dell’opera sprofondata sotto al pavimento, come galleggiante in un altrove che è il riflesso dello spazio tra plinto e soffitto, e le due teste, quella materiale e quella riflessa, sono a contatto in un testa a testa che si può immaginare come un momento agonistico tra il sé idealizzato relegato in uno stagno metafisico, e l’Io che rifiuta le sue limitazioni e, come Narciso, cerca il rispecchiamento a costo di ostinatamente gettarsi in picchiata “contro natura” verso una dimensione inaccessibile e inautentica. Allegoria dell’essere in bilico su un futuro incerto in cui la residua umanità sarà forse costretta a simulare se stessa ricorrendo a chip da inserire sotto pelle o alla biopirateria eugenetica, mentre già adesso il riverbero tra le due entità specchianti mette in discussione l’equilibrio dello spettatore. Francamente l’impressione è che, a parte la metacomunicazione, gli affascinanti esorcismi e le sottili denunce operate dall’arte di personaggi come Diego Iaia, ci aspettano altri decenni in cui, tra realtà apocalittiche e finzioni raggelanti, sarà tutto sommato ancora una reazione “naturale” rimpiangere non dico i vent’anni, ma almeno i trentacinque!

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il7 – Marco Settembre

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