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Roberto Nanni: l’ostinazione della ricerca

Roberto_Nanni
[ARTI VISIVE]

Roberto_NanniROMA- Guardare il mondo, com’è noto, è un’atto di quotidiana indifferenza, un superficiale automatismo; non è co-mune, invece, sforzarsi di andare oltre e riuscire ad affermare: “Ho davvero VISTO, lontano, ancora”, come potrebbe dire Roberto Nanni se il suo acume non si accompagnasse ad un carattere sfuggente eppure sempre pervicacemente presente.

“Lontano, ancora”, in un sordo e ipnotico avvitamento ci mostra l’avan-zamento senza principio né fine di una forma porosa che si perpetua inquieta in qualche oscura dimensione cripto-metafisica e che potrebbe coincidere con l’inesausto avvoltolarsi su se stessa di una spirale di DNA, assimilato ad un ruminìo carnoso e ruvido, ricavato forse da qualche buccia d’arancia tagliata in senso elico-idale, e magari mezza accartocciata e seccata, a causa del caotico collassare in contrazione, dettato dall’ inevitabile deperimento e contrario rispetto all’evolutivo e geometrico movimento di penetrazione della vita nel vuoto risucchiante del tempo. La forma carnosa e sanguigna subisce colorazioni idiosincratiche, e questo ci piace pensare che avvenga sulla base della struttura cognitiva dell’autore e di modelli matematici imperscrutabili. “Lontano, ancora” è infatti un’esperimento di cinema scientifico, rimontato con le musiche di Gabriele Panico, un giovane compositore di musica contemporanea, e pur avendo un lontano antecedente nell’astrazione cinematica di animazione di un Oskar Fishinger, per la qualità “pulp” del trattamento (la pel-licola è stata sotterrata per otto mesi e poi mandata al laboratorio di sviluppo e stampa) ed il colore si ri-collega invece idealmente alla tradizione del cinema sperimentale, al New American Cinema tra anni ‘60 e ‘70, e alle sue pratiche di manipolazioni progressive della risoluzione dell’immagine.

Nel succulento DVD “Ostinati 85/08”, con annesso libro illustrato (che raccoglie due saggi di Bruno Di Marino e Stefano Catucci, ma anche fotografie, appunti e disegni), edito dalla Kiwido di Federico Carra (già editore per Antonio Rezza e Flavia Mastrella) sono raccolte alcune delle opere più significative di Roberto Nanni, cineasta sperimentale nato a Bologna nel 1960, e residente a Roma da più di dieci anni, impegnato a sfug-gire ad ogni ruolo o collocazione predefinita salvo poi accanirsi con ostinazione nella missione dello scavo nel tempo e nello spazio e della loro registrazione effimera nei canali della memoria audiovisiva. Il processo di restaurazione e pubblicazione di queste decostruzioni che sono ricognizioni liriche appare come l’estremo atto d’amore nei confronti di una materia e di un messaggio concettuale che studiosi come Bruno Di Marino considerano esposti per loro natura ad un ingrato destino di consunzione. A molti appassionati dei linguaggi cinetici laterali, di frontiera, accoglieranno però con favore la possibilità offerta dal digitale di preservare la fragilità della poesia visiva, al di là delle considerazioni ontologico-decadenti sulla caducità di espressioni che non sono tutelate dalla grande industria.

Roberto Nanni ci riferisce che in realtà la forma protagonista di “Lontano, ancora” era costituita Dolce_vagare_in_sacri_luoghi_selvaggisempli- cemente da carta, duttile materiale che si piega docilmente alla necessità di appuntare minuzie. In effetti, molto spesso lo sguardo di Nanni indugia sul particolare per slanciarsi faticosamente e intensamente verso profondità universali, ma con tutta la leggerezza di una grafia di luce, quale quella che il mezzo gli sug-gerisce e che lui ha investigato ispezionando ogni tipo di supporto e formato, di cui Nanni dice: “Mi piace studiarli, comprendere le loro specifiche e successivamente amplificare i loro difetti o errori. Sono alla ricerca d’intensità e non mi formalizzo sullo strumento”.
Tuttavia il procedimento è delicato, e le apparizioni son fantasmatiche perché pur con la più brillante indu-zione, tanti esempi non bastano a confermare una visione del mondo, mentre è sufficiente un singolo caso di dettaglio che non “vibra” per falsificare la teoria più consolidata. Ecco quindi il motivo per cui Nanni parla a proposito del suo lavoro, di “realismo soggettivo” riprendendo la formula che fu di Francis Bacon (più che un artista di riferimento, un’influenza ossessiva per il cineasta italiano): un’osservazione scientifica passiva non sopravvive a se stessa, serve un’attività (ri-)costruttiva, una mappatura alterata, rinnovabile e selettiva della realtà, necessità che sorgono sia dall’ansia lucida di una interrogazione continua del reale, sia da consi-derazioni empiriche derivate dall’abitudine di Nanni di confrontarsi, agli inizi della sua carriera, con la pellico-la, materiale costoso che obbliga a delle scelte in sede di ripresa, laddove il digitale consente di filmare a vo-lontà, “troppo”, dice Nanni, perdendo in focalizzazione, in capacità di penetrazione.
“Pexer” è l’esibizione ancora para-scientifica, nei toni del rosso-arancio, forse di un foulard che garrisce al vento, in un vuoto non pneumatico, ma sintetico, in cui i riquadri del disegno stampato sembrano l’analogo di onde di griglie elettroniche di progettazione 4D piegate in un’increspatura continua, un’ansioso sventolìo, il mutamento sterile d’una superficie instabile perché esposta al Greenhouse_effect_-_Steven_Brown_reads_John_Keatssoffio elettromagnetico di microeventi che sono la traduzione di reazioni esistenziali tremule. In un breve inciso, sono visibili anche biglie d’acciaio che rotolano in una meridiana segnando le svolte casuali ed equilibristiche di dimensioni che si gonfiano con l’a-ria, fluttuano sulla musica di Steven Brown come se questa fosse la trascrizione di bioritmi alterati dallo schema che ricopre la realtà in sparizione. In questi due primi video del DVD, si avverte un gusto del noise che, richiamando la poetica dello sporco di un film come Eraserhead (e Nanni è un grande estimatore di Lynch), dimostra che questo tipo di ricerca non è affatto consolatorio ma anzi si nutre di un certo senso del tragico, affonda nell’indefinito, si nutre dei dubbi sulla consistenza di quella che definiamo realtà, mentre gli unici appigli sono nell’interpretazione.
“Greenhouse effect. Steven Brown reads John Keats” si pone come un poemetto visivo costruito con la col-laborazione del lead singer dei Tuxedomoon Steven Brown, con cui Nanni ha collaborato lungamente realiz-zando film che venivano proiettati durante i concerti del gruppo che costituivano così delle esperienze multi-sensoriali ad altissimo coefficiente artistico. In quest’opera, una selezione di 25 minuti su una durata totale di circa 90’, si attraversano diverse condizioni dello spirito, dall’anthem planetario dolente del primo brano, con la Terra che pulsa come un cuore deforme, stinge e piange con la voce d’un bambino e si gonfia in dettagli della visione satellitare, si passa alla struggente interpretazione rallentata ed astraente di un volo di gabbiani accompagnati da note di piano dilatate, fino alle nebbie bicromatiche e ai fumi misteriosi in cui un sole terminale sembra illuminare una dimensione cinematica eterea e archetipica, dove l’essenza compare e già è sull’orlo della perdita. Evocazione dell’eterno presente d’un cinema come “stato gassoso della percezio-ne”, secondo la concettualizzazione di Deleuze, consapevole di avere appena il tempo di materializzarsi co-me epifania magica, senza poter farsi narrativo se non al costo intollerabile dell’estinzione del suo senso più profondo, materiale e spirituale insieme, e della dissoluzione nel grembo ipocrita del linguaggio convenzio-nale parlato dall’industria. In altri momenti cogliamo gocce trasfigurate in grandi perle trascorrere sullo scher-mo di pastosità cerulea, mentre la voce di Brown si accavalla in un’iterazione poetica minimale, e poi cristalli nel buio, jazz strutturalista che scorre sotto rami d’albero in flusso. Un flusso evidentemente imparentato col movimento Fluxus in cui Nam June Paik, pioniere della videoarte, compì nei primi anni ’60 esperimenti cinematici nel segno dello stiramento dei mezzi e dell’elicitazione del disturbo, in spregio di ogni fobia e-stetica. Roberto Nanni si ricollega idealmente proprio ad alcuni versanti di questa tradizione che fu contro-culturale, anti-accademica, di cui lui fa proprio non solo e non tanto l’aspetto politico di contrapposizione verso i “poteri forti” dei media audiovisivi di massa, quanto l’aspetto filosofico, maniacale, l’artigianalità come metodologia d’ascolto dell’esistente, l’investigazione della metafisica del dispositivo, “abusandone” nella sua qualità di generatrice di ombre d’umano. Ed infatti “Greenhouse Effect” in questa edizione termina con una figura controluce, una silhouette al tramonto che esulta, da sola, saltando a braccia levate in una pianura, sdoppiata, mentre il contrappunto di un violino con l’aggiunta di fiati funge da commento sonoro ad una sequenza emotiva in cui la quasi ingenua gioia è dovuta alla toccante consapevolezza dell’esserci anche nel momento in cui si allungano le ombre, è nel dispiegare l’agonismo del vivere anche sul limitare dell’oblio. Nanni si dichiara infatti “ottimista sul niente”, ha tutto l’aspetto e lo sguardo di chi conosce a fondo la no-stalgia e ha compiuto viaggi al termine della notte, tanto per citare il titolo del celebre romanzo di Celine da lui adorato, eppure non si lascia confinare in nessun luogo della memoria, e naviga a vista, col suo sguardo a volte vellutato per empatia, a volte concentrato nel fuoco dell’attenzione del demiurgo alla Stan Brackage, a volte sardonico nei suoi coloriti commentari sugli scenari socio-culturali contemporanei.

In “Dolce vagare in sacri luoghi selvaggi” (è il verso iniziale di “Tinian” di Friedrich Hölderlin), le Lamore_vincitore_-_Conversazione_con_Derek_Jarmanmasse rosse e color carne di Mohammad Alì e Joe Frazier, recuperate da una pellicola di repertorio sul celebre incontro a Manila, sono gonfiate, e la pasta sanguigna dello scontro è sublimata in un abbraccio picchiato tra due “sla-ves” (il sonoro è affidato, significativamente, al brano “Slaves, not leaders”, ancora di G. Panico) i cui volumi danzano e collidono in una primigenia cosmogonia rituale resa assoluta dalla estrema dilatazione temporale di quei momenti di guizzante violenza, ma al contempo ricontestualizzata brutalmente dalla presenza estranea, tra i due pugili black, dell’arbitro bianco che gestisce cinicamente il rituale di quei circenses, un trickster baffuto, come lo ve-de Antonio Rezza in uno dei contributi speciali inclusi nel DVD. Anche qui si è reso necessario un intervento di rimontaggio (con l’aiuto di Mauro Diciocia) e di re-dubbing musicale per inserire la composizione di G. Panico, ed è affascinante immaginare il regista entrare di nuovo in un corpo a corpo (in un isomorfismo tra soggetto e mezzo della rappresentazione) con la sostanza molle della sua crea-tura per modificarla a distanza di anni, come se fosse un’opera aperta. Il cinema strutturale di Nanni non è infatti né freddo né formalista, piuttosto afferra la forma e la interroga stringendola da ogni parte fino ad estorcerle la verità, il legame lontano col Cosmo, con la fisica delle particelle, che come abbiamo visto, possono essere anche dettagli dei corpi che tanta parte hanno avuto nella storia dell’underground, nei ter-mini sia di performance di body art, sia di ribellismo punk e riflessione sull’identità alla Kenneth Anger. Nato nel 1960, Nanni ha vissuto in una swinging Bologna in cui non gli fu difficile ritrovarsi a frequentare Tondelli e a collaborare con Andrea Pazienza per le retroproiezioni dei Frigidaire’s Party. Erano i primi anni ’80, ma il clima sembrava una prosecuzione dei tardi seventies, in cui il punk si nutriva di sacche di insofferenza giovanile la cui energia creativa seminale compensava le tensioni internazionali della Guerra Fredda. Vorace consumatore di musica rock di quest’area e di quelle derivate, di ambedue le sponde dell’ Atlantico, Nanni è stato a Londra dove incontrò personalmente William Burroughs, e diversi altri personaggi del mondo della cultura. Come riferisce Nanni stesso, “La musica era contigua all’arte visiva o alla letteratura. Premeva in quella direzione”, e anche lui spingeva: dopo aver divorato “Il biglietto che è esploso” di Burroughs a soli 14 anni, si ritrovò ad alternare sistematici vagabondaggi da flaneur metropolitano a viaggi compiuti con l’attrez-zatura al seguito: “Ero una sorta di piccolo cinema viaggiante. Valigia con proiettore super 8, bobine e un telo avvolgibile. Non c’era bisogno di nient’altro”, un pioniere ambulante, piccola-grande unità produttrice indipendente di visioni. A Londra incontrò anche Derek Jarman mentre costui lavorava ad un progetto pro-prio con Burroughs, e nel 1993, un anno prima della scomparsa del regista, Nanni ebbe la possibilità di in-tervistarlo catturandone le motivazioni artistiche e lo spirito, e già amorevolmente derealizzandone il corpo con lo scrutamento capillare ed il dialogo oltre le convenzioni, facendone un inno alla vita. “L’amore vincitore. Conversazione con Derek Jarman”, mentre raccoglie il sonoro carico di senso, di arte e cronaca della voce di Jarman, fuori sync, ne relativizza la presenza amplificando ancora i dettagli scorporati e resi paesaggio o defocalizzandone la figura, sia alludendo alla smaterializzazione protagonista del film “Blue”, allora pre-sentato da Jarman stesso, sia trasferendo profeticamente e dolorosamente la sua testimonianza nei perenni domini virtuali dei fantasmi nell’accezione del film “L’invenzione di Morel”, di Emidio Greco (dal romanzo omonimo di Adolfo Bioy Casares), parabola sul cinema come macchina atta a dialogare con la morte. “Attraverso un vetro sporco” appare invece una volutamente frammentaria raccolta di immagini “spiate” da Nanni dalle finestre della sua casa di Roma con uno stile “casuale”, borderline, notturno, flashes son-nambulici di un mondo sciatto che, comunque e per per quanto poco tempo lo si osservi, sembra sempre in sofferenza e tradisce, giusto come certi supporti, la sua pasta sgranata, da cui l’autore sembra volersi fare indietro, documentando con ritroso distacco le “manifestazioni” televisive o di piazza della disgregazione so-ciale, con il rifiuto di ogni istanza sia illustrativa sia estetica, una decostruzione minimale, un indugiare sulla soglia opaca tra il nervo ottico ed il “fuori”, quasi una negazione sottilmente debordiana della società. “E lei si scordò” non è che il risciacquo progressivo di chissà quale memoria ottenuto attraverso lo scroscio di un “infinito” flusso di sostanze di paesaggio viste dal finestrino di un treno, con le pieghe e le righe delle masse di alberi e dei campi arati, tutti piegati a fasi alterne ad angolo retto e a 45° rispetto alla direttrice dello sguardo, come una pesante cascata di toni cromatici astratti, appena alternati da qualche momento di vi-sione “distesa” delle stesse Fiandre. Un diaframma cangiante che, scrosciando, suggerisce l’illusorietà di ogni trasparenza, un lungo velo che scorre sulla memoria, pietosamente abrasivo, nascondendo un poten-tissimo fuori-campo: Lei.

Roberto Nanni presenterà alcune delle sue opere, tra cui il suo ultimo film “Luce riflessa restituita alla notte”, il prossimo, imminente 12 aprile, a Parigi nel corso di una Scratch Projection organizzata dall’importante organizzazione francese Light Cone, che, nata nel 1982, ha come scopo la promozione del cinema sperimentale in tutte le sue forme e che detiene nella sua collezione circa 3000 film di più di 500 artisti, oltre ad un’altrettanto cospicua raccolta di documentazioni cartacee e non.  La serata, interamente consacrata a Nanni, avrà inizio alle 20:30 presso il Cinéma Action Christine, rue Christine 4, 75006, Paris, France. Ulteriori info su www.lightcone.org.


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