Alexander Calder I
I Mobiles hanno il dolce rumore della vita
“Nessun artista è più avanti del suo tempo. Ognuno è il suo tempo stesso. Eventualmente sono gli altri ad essere rimasti indietro”. Con queste parole della coreografa Martha Graham, con cui lo stesso Calder collaborò, è possibile riassumere l’intento dell’incontro del 13 gennaio. Il primo ospite è stato infatti Claudio Zambianchi, docente di storia dell’arte alla “Sapienza” di Roma, il quale ha indagato il rapporto tra Calder e l’arte americana, interpretando le linee guida della sua poetica e il modo in cui ha segnato l’evoluzione artistica del suo paese d’origine.
Il discorso di Zambianchi si è snodato tra tutti gli eventi, principali e secondari, della carriera calderiana, evidenziando la difficoltà di sviluppare il tema trattato a causa di due aspetti: il lungo rapporto di Calder con la Francia e i suoi “ingombranti” “Mobiles” che, sancendo la sua originalità, lo esonerano dal suo tempo e dalle correnti artistiche che lo hanno attraversato.
L’analisi prende avvio dall’infanzia calderiana: l’allontanamento dall’estetica tradizionale del nonno e del padre, entrambi scultori, l’approdo all’ “Art Students’ League” di New York e l’influenza, nei dipinti degli esordi, dei soggetti urbani e moderni di John Sloan, di cui lì fu allievo, e del disegnatore politico Robinson, la cui tecnica della linea continua sarà determinante per l’attività di illustratore intrapresa da Calder alla “National Police Gazette”. E sarà proprio la linea continua la preistoria di quella passione per le linee sintetiche, che porterà Calder all’invenzione di quelle sculture in fil di ferro che per prime ne decreteranno la notorietà. “Romulus et Remus”(1928); “Spring”(1928) e il ritratto di “Josephine Baker” per citarne alcuni, come anche i suoi soggetti circensi tradiscono però anche una nuova idea di scultura, che tanto seguito avrà negli anni avvenire: non vi è più una massa modellata o scolpita, ma le figure prendono forma attraverso la curvatura e la saldatura. Nel trattare questo aspetto, Zambianchi sottolinea il poco credito che venne conferito a Calder come inventore di tale modalità scultorea, attribuita invece ad artisti come J. Gonzales, in quanto per l’artista americano non fu il prodotto di un’accurata riflessione teorica ma della pratica minore della caricatura.
Così, continuando a camminare nei sentieri della sua riflessione Zambianchi arriva ad affrontare uno dei temi più importanti della conferenza, dando la sua prima interpretazione riguardo alla storicità calderiana: i “Mobiles”. Le famose opere di Calder, che devono il loro nome a Duchamp, iniziano a configurarsi in territorio francese, precisamente dopo una visita all’atelier di Mondrian. In seguito infatti, per un paio di settimane, Calder si dedicherà ad esperimenti con l’arte astratta, giungendo ad una conclusione riassumibile in queste parole:” Perchè l’arte deve essere statica? Se osservi un’opera d’arte, che sia una scultura o un quadro, vedi un’intrigante composizione di piani, sfere e nuclei, che non hanno senso. Sarebbe perfetto, ma è pur sempre arte statica. Il passo successivo nella scultura è il movimento!” E allora ecco i “Mobiles”, diretta conseguenza di tale necessità immaginativa. Questi consacreranno Calder ad essere uno dei più grandi rappresentanti dell’arte cinetica, rispetto alla quale egli però dà forse il contributo più originale: i movimenti aleatori infatti non sono indotti dall’artista ma sono il prodotto di circostanze per lui incontrollabili, come ad esempio il vento. E proprio qui si situa in primis l’americanità calderiana. Egli infatti si fa interprete di una delle urgenze maggiori di un’America sulla via dell’industrializzazione: il rapporto tra la natura e la macchina. Già un’opera come “Lackawanna Valley” di Georges Inness (1856) è sintomatica di tale necessità ma essa si risolve a favore della natura neutralizzando il vapore della locomotiva nei colori del paesaggio circostante. Un altro autore americano, contemporaneo di Calder si dimostrerà sensibile alla tematica: Sheeler infatti traccerà la sua fortuna disegnando paesaggi industrializzati, in cui una natura che ha assunto i connotati dell’età meccanica, sposterà il punto d’equilibrio tutto a favore della macchina. E anche Calder sembra propendere da questa parte. Ma i suoi “Mobiles”, come ricordato, sono mossi dal vento. Questo non vuol dire che essi simulano i movimenti naturali, il loro mondo infatti è quello formale, ma li contengono in sé facendo diventare i “Mobiles” una possibile sintesi del difficile binomio macchina/natura: essi ambientati nella città trovano complicità con questa perchè manufatti ma nello stesso tempo contengono qualcosa che non le appartiene, i movimenti naturali, i quali però non le vengono contrapposti in quanto non agiscono per simulazione ma sono contenuti dalle opere come possibili combinazioni tra le infinite oscillazioni.
Questa assenza di definizione e autoreferenzialità dei “Mobiles”, che non rimandano a nessun significato nascosto o mondo antecedente, è ciò che gli conferisce quell’aspetto vitale, naturale e quella temporalizzazione che tanto credito ha avuto nella critica calderiana e tanto seguito in correnti come la Minimal Art americana. La temporalità messa in scena da Calder è un altro di quegli aspetti che, nelle parole di Zambianchi, fanno di lui un americano:questa infatti condivide con quella tipica dell’esistenza un carattere di aleatorietà che calderianamente si consuma nll’opera stessa e nella sua prima interazione con lo spettatore, non nel rivederla. Nel riferirsi al tema della temporalità il docente ha legato poi Calder a Pollock facendoli convivere nell’idea di uno spazio da cogliere fenomenologicamente ed esistenzialmente, esperendo il proprio esserci, topos tipico dell’arte americana (aggiungo io: Faulkner,”Zanzare”). Ma ancora più importante l’argomento sarà per quegli artisti che, criticando negli anni ’50 i presupposti dell’espressionismo astratto,porteranno in scena oggetti di uso quotidiano, di cui celebre esempio ne è Rauschenberg che con i suoi combine- paintings sembra così vicino alle sculture da camera dello stesso Calder.
L’artista americano lavora poi nel teatro, nella danza. Egli infatti collabora anche con Martha Graham offrendogli oggetti che possano essergli utili per delle interazioni all’interno degli spettacoli, configurandosi anche come uno dei precursori dell’happening americano.
Per concludere con le parole di Zambianchi, l’opera di Calder può essere considerata il presupposto di: “Tutta quella linea che allude a quei lavori che chiamano opera e spettatore ad un’esperienza che si rivolge nel tempo”.
“I Mobile hanno il dolce rumore della vita”.
Asia Leofreddi
Alexander Calder, arti visive, Asia Leofreddi, martelive, martemagazine, News, Palazzo delle Esposizioni, roma, Ugo Mulas