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Da Calder

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[ARTI VISIVE]

121ROMA- Si può incontrare  Alexander Calder per la prima volta a Roma. Si è recato e tuttora si trova al Palazzo delle Esposizioni. Avete tempo fino al 14 febbraio, poi sembra aver deciso di ripartire e chissà se tornerà!

Ovviamente non sto parlando dell’artista in persona, deceduto a New York nel 1976, ma del suo lavoro che una retrospettiva, organizzata  dall’Azienda Speciale Palaexpo e curata da Alexander S.C. Rower, ridisegna in un percorso creativo che passa per centocinquanta opere, provenienti da collezioni pubbliche, private e dalla Fondazione Calder.
L’esibizione si snoda articolando un itinerario cronologico  che rispecchia l’esistenza artistica del noto artista americano, toccando sia opere raramente esposte al pubblico e meno determinanti per la sua figura, sia i suoi celeberrimi “Mobiles” e “Stabiles”, che hanno legittimato la sua posizione di rilievo nel fluire dell’Arte Contemporanea.
Figlio di uno scultore e di una pittrice, si laurea in ingegneria nonostante una predisposizione all’arte coltivata fin dall’infanzia, fino a che nel 1923 si stabilisce a New York dove studia disegno e pittura presso l’Art Students League diventando poi uno degli artisti più in vista del XX secolo.

Il percorso proposto al Palazzo delle Esposizioni, si apre con eleganti sculture di fil di ferro, materiale maneggiato dall’artista fin dall’infanzia, di diverse grandezze e raffiguranti acrobati, animali e ritratti, che Calder elaborò nel suo primo soggiorno parigino. A queste si affiancano piccole sculture in bronzo che riprendono ugualmente il tema circense e rispecchiano la volontà dell’artista di riprodurre l’idea del movimento anche nell’uso di materiali più difficilmente malleabili.
Nelle sale successive si incontrano opere su tela, realizzate sotto l’influsso della visita allo studio parigino di Mondrian. Calder infatti, in quel periodo, si avvicina all’astrattismo sviluppando però la necessità di rimediare allo “spreco” di quei piani e quelle forme che nella staticità a cui erano costretti sembravano non trovare espressione: “Perché l’arte deve essere statica? Se osservi un’opera astratta, che sia una scultura o un quadro, vedi un’intrigante composizione di piani, sfere e nuclei, che non hanno senso. Sarebbe perfetto, ma è pur sempre arte statica. Il passo successivo nella scultura è il movimento!“.
Infatti le grandi attrazioni della mostra sono proprio i suoi celeberrimi Mobiles, nome inventato da Duchamp per indicare queste originali strutture di lamine di metallo di fattura industriale dalla forma astratta e spesso colorata, tenute insieme da fil di ferro e sospese, oscillanti ad ogni spostamento d’aria.
Ho realizzato diversi lavori da collocare all’aperto: sono tutti sensibili al vento e ricordano un veliero in quanto rispondono meglio ad un certo tipo di brezza. Associare 1 o 2 movimenti semplici  ma con tempi diversi produce un effetto davvero eccellente, perché per quanto semplici sono capaci di infinite combinazioni“. Tra i più celebri esposti ci sono”Untitled” del 1933, Roxbury Flurry del 1946 e “Big Red” del 1959 del Withney Museum di New York, le “31 janvier” del 1950 del Pompidou di Parigi e in via eccezionale il monumentale Mobile collocato permanentemente all’interno dell’aeroporto di Pittsburg.
Negli anni trenta realizza poi i primi Stabiles nome inventato da Jean Arp per indicare invece enormi sculture statiche, da collocare all’aperto e ideate solo in funzione dello spazio che avrebbero dovuto occupare. Elemento di fusione tra questi due concepimenti del rapporto tra scultura e movimento sono poi gli Standing Mobiles (“Little Spider” della National Gallery di Washington, “The Spider” o “Promegranate”), sue sculture in movimento, ma ancorate a terra.

Descrivendo uno dei suoi Mobiles Calder disse: “Non ha nessuna utilità o significato. E’ 032semplicemente bello. Produce un grande effetto emotivo se si è in grado di capirlo. Naturalmente se avesse un qualche significato sarebbe più facile da capire ma non ne varrebbe la pena!“.
E l’onestà di Calder si traduce proprio in questo appunto. Calder si esime dal dare significato esistenziale alle sue opere, vissute come azioni individuali che vengono regalate all’altro e alla versatilità del suo intendere le cose del mondo. Sicuramente se esse avessero rinviato a chissà quale retroscena, capriccio o perversione dell’animo umano, ne avrebbero guadagnato in suggestività e fascino, ma la rinuncia all’espediente lasciando la cosa essere ciò che è all’origine del concepimento, e cioè “semplicemente bella”, rispettando il proprio modo di stare al mondo, è forse di molto più stimabile, certamente più coraggioso. Lo spettatore viene introdotto in un’atmosfera ludica, dove la condizione esistenziale dominante sembra essere la scelta di una leggerezza vissuta non come rinuncia alla comprensione del reale, ma come una tra le risposte all’angoscia da essa generata. Non c’è critica, concetto o intellettualizzazione, ma uno tra i possibili modi d’essere al mondo che può essere discusso o appoggiato, ma solo perché mostrato nella sua nudità, spogliato da ogni vessillo teorico.
Da consigliare, provocatoriamente, a tutti coloro che ancora si sforzano a dare significato a lavori che sarebbero sicuramente più belli se lasciati parlare per sé. E ce ne sono tanti…

Asia Leofreddi

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