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L’ineluttabile poesia

alda
[LETTERATURA]

aldaMILANO- È morta lo scorso 1 novembre Alda Merini, la poetessa dei Navigli, chiudendo un cerchio iniziato il primo giorno di primavera del 1931. Come ad ogni morte di poeta maledetto che si rispetti, tv e carta stampata hanno accompagnato l’evento con epitaffi vari in cui, oltre che sul tracciato esistenziale di questa rara figura, hanno speso molte parole anche sulla follia, che è stata sua fedele compagna di vita.

Tante parole, forse troppe, che sembrano sottintendere – fastidiosamente- che proprio dalla pazzia sgorgasse la poesia di una delle ultime grandi voci letterarie del nostro paese. Credo invece che la pazzia sia solo stata un accidente, un incontro casuale nella vita di una donna che è nata poetessa, merini_bioche è stata tale prima, durane e dopo la follia. Oltre la follia.
La poesia non risiede nella biografia di un poeta; certo la vita personale influenza la pratica lirica, ma da essa ne riceve suggerimenti sussurrati senza mai farle da specchio. La poesia vive nella profondità del sentire e nella capacità, rarissima, di saper rendere universale il particolare. Alda Merini ha sempre dimostrato di avere una straordinaria capacità di ascoltare l’esistenza.
Lei stessa avvertiva e scriveva che l’essere poeta era dentro di lei inevitabilmente. Leggendo le sue parole si capisce che questa è stata la sua vera pazzia, ciò che ne faceva una “diversa”. Come tutti gli artisti, era costretta suo malgrado in uno spazio separato, come scrive in una delle sue numerosissime poesie “confinati nello spazio come astronauti sulla stessa luna”.

Parlava d’amore, la poetessa Merini, che di volta in volta era mistico, spirituale, carnale e erotico. Il più delle volte, comunque, questi aggettivi coincidevano ed era così che il sentimento appariva in tutta la sua splendida impudenza. Era una donna estremamente fisica e le sue parole erano fatte dell’odore e del peso della carne.
aldameriniNonostante trovasse, come sovente accade, ispirazione maggiore nel lato doloroso dell’esistenza, il suo tono lirico è dolcemente dolente, sofferto, ma non violento come ci si potrebbe aspettare.
Dacia Maraini la descrive come una donna estremamente ironica, qualità che forse spiega l’ammorbidimento della disperazione in malinconica tristezza.
La sua produzione comprende una serie sterminata di versi e diverse incursioni in una prosa personalissima fatta di voli allucinati, di concatenazioni difficili o fiumi di parole in piena. Quasi impossibile per un critico ordinare le sue poesie, che spesso venivano scritte di getto, appuntate su foglietti volanti. Ultimamente dettava a chiunque si trovasse con lei i suoi brevi pensieri poetici e aforismi. Aveva una capacità lirica tale che riusciva a racchiudere un trattato di filosofia in una singole frase: “Se Dio mi assolve, lo fa sempre per insufficienza di prove”. Probabilmente sognava anche in versi.
Ci mancherà vederla in televisione, come accadeva ultimamente, con l’immancabile sigaretta accesa tra le dita, perfetto simbolo della sua voglia di aspirare la vita e trattenerla un istante per poi buttarsela fuori dall’anima come una poesia.

Francesca Paolini

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