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Il roadhouse ed i road-runners, la nebbia e il succo

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il7Nizni & the Roadhouse (www.myspace.com/nizni) ci tengono a mettere subito le mani avanti: d’accordo che la geometria può essere questione d’opinioni, ma loro provengono idealmente dal delta del Mississippi, non dal triangolo delle Bermude.

Calpestando l’orlo dei jeans troppo lunghi capita allora di disseminare le proprie tracce e strofe Nizni__the_Roadhouselungo la pista lasciata da una donna (“Wo-man”) mentre una fisarmonica ci accompagna lungo il percorso tracciato dall’ostinazione senza lasciarsi fermare neanche da un abbozzo di assolo di chitarra piantato lì a rendere accidentata la marcia verso l’abbraccio: “This is my heart, these are my arms, whisper in the dreams of the night”. La placida indolenza diventa quieta mistica della sopportazione in “Begin to smile”, un’altra ballata in cui la voce sussurra lo stoicismo del lonesome cowboy, il cui passo pesante si ferma a riposare solo dopo che un violino triste ha cantato il suo vagare nelle pianure. “What I said” ha un ritmo più cadenzato, sembra un blues da lavoro pesante, quando il corpo dice una cosa e la mente un’altra. Interessante il pattern per chitarra e batteria nel mezzo del brano, ma comunque la cadenza è giusta: se uno ha detto qualcosa seriamente in quelle condizioni, è bene ascoltarlo, prima di dire: “E’ meglio che si prenda una vacanza…” “Winter”: la solitudine immobilizza come un congelamento, ed il sole anemico proprio non ce la fa a penetrare sotto le coltri di neve e la pelle intirizzita del montanaro; efficace fin nelle ossa, questa ballata in cui, sull’arpeggio cristallizzato, si staglia un ritornello che cerca di dare un po’ di calore a chi è rimasto in qualche modo bloccato tra i ghiacci o tra la gente. “I take care” non parla di qualcuno che arriva quindi con una provvi-denziale stufetta e ci si mette a cavalcioni per scaldare il retto femorale; no, è sincero country-folk che elenca con l’armonia della semplicità le cose di cui non preoccuparsi perché fanno da sole e, con genuinità segnata da un mandolino un po’ bluegrass, dichiara sotto un cielo terso di curarsi piuttosto solo “of you, of me, of both together”, di te, di me, e di entrambi insieme. Certe volte questo è già troppo, ma certe volte non ci si fa caso, come quando una voce fem-minile si unisce al trio di base nella ottima, lineare “Somebody help me”. Puliti ed immediati, Nizni & the Road-house, sanno quello che fanno ma lo fanno quasi senza farci caso.

JaguaneraJaguanera è una combriccola di musicisti svelti che godono nel comprimere in un nucleo splendente come l’occhio di un jaguaro nero tutte le influenze che condividono, uscendone fuori con un progetto che svicola dalle trappole dei generi per andare a delineare una prospettiva tutta sua, elettrizzante e fluente come la parlantina di una Fender sciolta e dinoccolata. “My Wave” è l’equivalente fusion di “My Way” di Frank Sinatra, è il manifesto di chi si sente irrefrenabile nel suo ardore sonoro da manipolatore di road-runners. Un ritmo sostenuto, da carrellata cinemato-grafica a rotta di collo su piste solcate da scie colorate come in Koyanisqaatsi, mentre la voce dice di “sentire” lei, e di due chitarre, una gratta l’asfalto (mentre tutti dormono, nelle casupole), affacciandosi dal finestrino fumeè per poi complicarsi a bella posta la vita in interlocuzioni grezze e brillanti, mentre l’altra distribuisce assoli geometrizzati come se fossero stazioni di rifornimento o fari nella notte che lanciano il loro segnale metropolitano di allarme ai naviganti stradali “Questa è la mia onda fuori controllo…”. “Lullaby to scream” è dapprima un vitreo piroettare di parole spifferate ad un’amante favolosa screziata di desideri antichi, su uno sgocciolio arpeggiato di raggi flemmatici d’un sole caleidoscopico, e lei viene così persuasa, con inequivocabili segni di passione chitarristica, a fare considerazioni pianistiche più attente sulla prestanza di un nuovo messìa dall’ispirazione orientaleggiante che già ha intessuto il suo nome su un arazzo di fibra di vetro e pelo di cammello mammone, e che adesso aspetta il riconoscimento di sè come del cor-rispettivo, sempre sognato, del fuoco che le arde dentro. In “Friday” il tappeto arioso della tastiera è decisivo nel determinare aperture ad orizzonti premianti, mentre gli intarsi della linea vocale con le trame tastieristiche sono una fase densa all’interno di un brano in cui l’elaborazione elettronica regala sensazioni di benessere anche ad un rinocefalo che s’è morso sul collo!

NerOnirica è la signora e i suoi vestiti di velluto o di broccato, perché i suoi amanti li fa NerOniricasbroc-care, con un’eleganza che, se ricambiata, è mal riposta, e perchè le curve sono infide e lo stra-bismo di venere è la scusa con cui guarda il marchese mentre si fa mordicchiare il collo dal com-mendatore, in cima ad una terrazza panoramica sul delirio sentimentale, che prelude alla sin-drome da Otello. Ecco il desiderio disseminato in giro da questa sfuggente entità musicale, che già una volta sparì dopo il primo demo per andarsi a rinchiudere in compagnia di sei vigorosi gio-vanotti che le hanno dato una strapazzata sonora avendo cura poi di rivestirla con altrettanti nuovi abiti su misura che lasciassero scoperte ampie zone di pelle rock incuranti della pudicizia che fu. Forse è il flicorno che apre “Nebbia (al di là del fiume)” ma di certo l’atmosfera sembra sul punto di sfumare in un grigio indistinto dove la voce sfatta dall’amarezza sgrana il rosario della rassegnazione, ma poi il veleno sprizza dalle ombre nel canneto (“La mia coscienza ascolta la tua sete…”) e tra gli assoli flessi e le scariche di perversione si scopre che quella dimensione ormai si confà al pro-tagonista (“C’è un altro me che piange a nome mio […] Quanta nebbia che mi inghiotte, spero non mi sputi mai via perchè ho voglia di crepare lento in quest’agonia”), che ormai piangerebbe  lontano da quelle spiagge e da quelle strutture armoniche e ritmiche, condite da svisate di chitarra e guazzabugli elettronici in fermento. Altre stanze rivelano i loro segreti tra le frasi curve di chitarra in “Pungere” (“Conosco l’abisso dell’umiliazione… L’anima vera, l’anima finta, sono caduto per la tua spinta”), il wall of sound della “rivoluzione, il corso incontrastato di una nuova sovversione” psicologica è affocato e arricciato come uno schizzo di lava. Il drumming è variegato, l’intreccio chitarristico avvince a sè le pieghe della costruzione. Brani che sono avventure esotiche senza ritorno in trappole di bellezza corrosiva, ed il synth impone sorprese allucinatorie ad una verità che trascolora di continuo tra i dubbi ed i cambi di atteggiamento, se non di tempo, come in “Ironica”. “Basta che io sia diverso” è invece una rabbiosa eruzione indie-punk che prorompe sparata sin dall’inizio, istoriata con un riff di chitarra ondeggiante e martellata da una sezione ritmica crudemente radioattiva.

CherryPlumI Cherry Plum forse si sono ripromessi sia dagli albori di avere un gusto dolce ma acuto e liquo-roso come la ciliegia, ed uno sordo, scivoloso e oscuro come la prugna, una roba da lasciare la lingua annodata e tutta tinta, e la faccia non indifferente ma concentrata e tutta convinta (la rima è voluta). “Sola mai” slitta infatti su uno scivolo in un giardino di periferia, mentre la voce si guar-da accanto e dichiara cosa è disposta a fare per lei e la chitarra ritmica mette a nudo al momento giusto lo schema con cui ha intessuto una griglia di tensione modulare sotto alle parole di dedi-zione, che a tratti si sbucciano in un falsetto espressivo, sciolto in un amore che è un “sapore sulla pelle e sulle labbra”. L’assolo iniziale curvo in volute fugaci si imprime su un ritmo pressante in “Cieli d’Agosto” che si infittisce in strofe descrittive e poi si scioglie nel “meraviglioso incanto” liberatorio “sotto alle stelle”, tra “immagini destinate a perdersi”, con “solo il cielo addosso”. L’impasto è un crogiuolo di ciliege, infatti, come volevano dimostrare, ed il succo chitarristico spesso dall’andamento ascendente, rende lucido l’occhio alle prese con versi che si propongono come ancore di salvezza da lanciare in oceani d’incertezza: “Non mi perderò, non mi piegheranno gli anni, le sconfitte, e le ferite sulle mani” (“Stelle – polvere parte 3”) “Seguimi” è un altra rassicurazione lucente di chitarre che arrotano l’aria ma si snodano come code di aquiloni derivate dallo sfilacciamento d’un’ansia sconfitta dalla saggezza, lo spargimento ipnotico di note languide ma non svenevoli e di appunti per un ottimismo fusionale: ”Credimi, il tempo ti aiuterà se non ne avrai paura, se ti ci abbandonerai”. http://www.myspace.com/cherryplumband

Il_7 – Marco Settembre

 

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