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Teatro Canzone ma con attenzione…

[PER QUEL CHE VALE]

«Suicidio a freddo, di controinformazione, PUM, e tutto cambia. E il mondo, fino a un attimo prima tremendo e ostile contro di te, viene subito a rotolarsi ai tuoi piedi come una palla docile, sorniona, scodinzolante, affettuosa… un cocker. Peccato che poi non c’hai la soddisfazione di vederlo… il cocker».

Non è stato suicidio. Ma a tutti quelli che come me hanno amato Gaber prima, a quelli che l’hanno cercato nei teatri d’Italia, a quelli che l’hanno suonato e cantato prima, a quelli che hanno discusso i temi degli ultimi spettacoli, a chi, insomma, c’era.

A tutti quelli che c’erano, secondo me, questo cocker, fa un po’ paura. Ascoltare oggi quelle parole che Gaber e Luporini avevano scritto per Polli d’allevamento, e ripreso con piccoli cambiamenti per Teatro Canzone, fa un certo effetto. Certo, il mondo intorno a Gaber non è mai stato “tremendo e ostile”, ma neanche mai “cocker”. L’avevamo già visto nel caso di De André. Le vendite vanno alle stelle e tutti incominciano a parlare di Gaber, «com’era buono, com’era bravo, sembra davvero impossibile, pensa che cosa incredibile, lui non c’è più» (cantava nel 1970 in Il signor G muore). Fa piacere anche a chi c’era che Gaber sia ormai amato da tutti, quello che non va giù è il fatto che quando il gatto non c’è, il rischio è che i topi ballino o, quantomeno, traballino. E quando è mancato Gaber, siamo entrati un po’ tutti in confusione.

Prendiamo, ad esempio, la nozione di Teatro-Canzone: secondo me, oggi la si confonde con la “teatralità” in canzone, che è ben diverso. Non che una sia buona e l’altra cattiva, anzi, anch’io, nel mio piccolo, un po’ di teatralità sul palcoscenico cerco di portarla sempre. Ma Teatro-Canzone è tutt’altro. La chiave per comprenderlo è quella del “qui e ora”. Non c’è riproducibilità tecnica in Gaber, è lì che sta il teatro. Non sta o quantomeno non soltanto nell’alternanza di canzoni e monologhi e nel fatto che esista all’interno della struttura teatrale. Ma il succo del teatro-canzone di Gaber è che vive in-vece del disco. Sarà per questo che tutti fanno uso di questo termine? Forse perché suona come una forma in grado di combattere la crisi del mercato discografico? Beh, ad ogni modo, per far sì che non ci sbagliamo ancora mi sono voluto ricordare ed ho voluto citare qui le parole con cui Gaber raccontava il Teatro Canzone a Guido Harari nel 1993: «Il Teatro-canzone inizia col Signor G., che ancora raccoglie alcune cose scritte prima della ‘svolta’, secondo una formula che in un primo tempo comprende solo canzoni, poiché ancora non recito, e piccoli interventi parlati che via via si trasformeranno in monologhi, dove si affronta un tema — la condizione schizoide piuttosto che la libertà obbligatoria, o la psicanalisi — come in uno spettacolo di prosa, sviluppato però attraverso canzoni e poi monologhi. Il mio approccio è già diverso da quello classico della musica leggera, che prevede che il pubblico venga a vedere uno spettacolo di canzoni che già conosce: da me si vengono a vedere canzoni che non si conoscono. Questo è il dato particolare di quegli anni: non si va ad ascoltare, quasi proustianamente, una specie di piccola memoria del tempo perduto, ma ciò che non conosciamo e che forse ci può interessare. Ci sono altri cantautori che emergono in quel periodo — Guccini, Battiato, etc. — proponendo una canzone italiana colta, non concepita per vendere dischi, ma ecco dove si inseriscono Gaber-Luporini: la nostra è una canzone di teatro, che in teatro nasce e trova un suo arco emotivo (in Italia in questo senso credo che siamo tutto sommato gli unici, nel mondo non lo so se avvengono queste cose), che non si pone come prodotto discografico per numerosi ascolti e quindi per una specie di attaccaticcio che è tipico della canzone commerciale, ma che va ascoltata e goduta nel momento in cui l’ascolti, al primo ascolto, proprio come un pezzo teatrale. Ecco perché “Teatro-canzone”, che è poi la canzone di Brel, di Brassens, di un periodo che oggi non ha eredi e me ne dispiace molto, perché portatore di una tensione culturale che non esiste più. […] questa canzone è legata a doppio filo con il momento della rappresentazione dal vivo. È lì che si crea e si consuma l’emozione. Noi in qualche modo facciamo una canzone che è qui e ora!, con un tipo di fruizione che non è economicamente vantaggiosa. (ride) Ho la sensazione di aver fatto negli ultimi vent’anni dei dischi che la gente ha comprato dopo aver visto gli spettacoli per riviverli in un secondo tempo. Per carità, non voglio dire che scrivere una canzone di successo sia roba da poco: è difficilissimo, ma ci vuole una bravura diversa. Luporini ed io abbiamo un altro tipo di specifico… Insomma, i cantanti hanno problemi diversi dai miei: il disco, il suono del basso, la cassa della batteria che deve essere più avanti. È un altro mondo: per carità, preoccupazioni legittime, ma che mi toccano pochissimo. Mi è più facile parlare con degli attori che con dei cantanti, il che è strano. Questo mi aveva anche portato ad abbandonare la musica ma, visto che nasco come musicista, ho un certo gusto cui non posso rinunciare».

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