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I nonni, l’altrove, la scettica, il vaporizzatore

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il7Due numeri fa ci siamo lasciati con la recensione regolare (pur nella sua anomalia) di quattro gruppi: un lavoretto pulito. Da allora sembra passata un’eternità, ed ora siamo a sorpresa costretti a “prendercela” con altre quattro vittime che stavolta – attenzione! – non è detto affatto che si siano esibiti nella stessa serata al ConteStaccio di Roma. Il motivo di questa scelta sfugge sia alla logica induttiva che a quella deduttiva, sappiamo che a volte la realtà si arriccia come cotenne sulla fiamma di un barbecue e non si riesce a stenderla neanche col ferro da stiro, perciò invitiamo anche i lettori a tener duro facendo finta che tutto sia normale.

In questo senso un aiutino potrebbe venire dalla lettura de I Ching o dall’ascolto dei brani di Salvatore D’Avino, che forse, dato il suo cognome, piuttosto che ispirarsi a Tommaso D’Aquino, preferisce un goccio di Barbera (il vino, non il S._DAvinoco-autore di Braccobaldo e de Gli Antenati). Ma basta con questi stucchevoli preamboli! Il riferimento al più noto tra i Padri della Chiesa non è del tutto peregrino (peccato! Eheh…) dato che il D’Avino ha inteso provo-care sin dall’inizio il popolo dell’alternative entrando a far parte di una rockabilly band, i Black Margot, che nel 2007 non si è trovata in imbarazzo nel chiudere l’evento nazionale del MSAC (Movimento Studentesco Associazione Cattolica). Da allora lui ha prodotto un singolo presentato al Festival di Castrocaro (entrando nella relativa compilation ufficiale 2011), “In ogni storia”, ed un EP omonimo di 4 brani. Eccoli: “In fondo Dio c’è” è la piana contemplazione in musica, della fluida scorrevolezza della vita, presa con le pinze di una filosofia positiva; gli accordi cristallini della chitarra acustica sono in chiave di blues quieto (come anche la tastiera inizialmente discreta) che non si scompone troppo davanti alle apparizioni ultraterrene laiche: “Hai messo un vestito che non copre niente, chissà cosa scatenerà in me…” La batteria spazzolata sostiene la tastiera jazzy che si raccorda ad accenni di chirarra slide, e la reazione del narratore capace di apprezzare il mondo quando c’è lei vicino, è quella di apprezzare fino in fondo, e “fare per ore l’amore” e “quelle cose che fanno morire anche te”. I buoni proponimenti mettono in pace così sia la coscienza che i sensi, e attivano i delicati controcori femminili a cui fanno da suggello gli “yé-yéah” conclusivi, in piena comunione spirituale! La musicalità di D’Aquino vive a quanto pare di attenzione ai dettagli senza mai forzare la mano ad una serena quotidianità che sembra raccontarsi da sé, con testi piani che si lasciano scoprire come passi felpati che accompagnano la melodia delle giornate più rilassate con meditata immediatezza. L’arpeggio iniziale di “In ogni storia” è una molla per un groove ancora tinto di blues con la chitarra slide che avvince in amorevoli cappiole un testo impreziosito da pregevoli interventi del clarinetto. “Baby, davvero non pensavo fossi sola, ti ho visto e il mio pensiero adesso vola, ci sono fogli bianchi in ogni storia…”, ed è in quegli spazi vuoti che fluisce a volte la poesia, e occorre intrecciarne le fibre per produrre una storia nuova o dar vita a com-posizioni lievi come queste, che però, forti della loro comunicativa e di una struttura appagante nella sua semplicità, suggeriscono di ascoltare solo i ritmi più umani che la vita può proporci, compresi ancora una volta i controcanti femminili che procurano pastosità ad un sound che riecheggia Alex Britti ma con una pacatezza da golfo campano, da cui D’Avino proviene. “C’è” è invece all’inizio una classica ballata ronzante sul mestiere di scrivere canzoni e sull’impulso di cambiare il mondo, o perlomeno di capirlo, ma gli accordi di un organo deliziosamente datato ed il sommovimento di basso che si interroga su chi ha torto e chi ha ragione lascia spazio ad aperture di tastiera ed appelli cantautorali d’autore più contemporanei espressi in forma di elenco ed iterazione inesausta di tipi che credono d’aver capito mettendo in atto diverse tattiche, quando invece ci vuol soprattutto “fortuna e dedizione” specie se in questo mondo “ci sei caduto dentro”, il tutto in uno stile avvolgente, con i tocchi mono-nota in crescendo e l’afflato ascendente ed i cori pervasivi, che può ricordare con gusto i successi rhythm’n’blues’n’soul della Motown, cosa che spero non faccia piacere solo ai nostri nonni! “Polvere” nasce come pezzo più rock, imbastito su un riff di basso ed una chitarra ritmica contrastata ironicamente dai “du-duruduu” delle coriste, sostegno al lamento stavolta irrefrenabile nella sua tristezza (brillantemente esorcizzata dal groove), dovuta a quella vita che lascia il narratore solo nella e con la polvere, “aspettandomi ogni giorno un segno”, segno che, complice l’assolo di sax, potrebbe manifestarsi come un pezzo come questo, che oppone al pessimismo acre un’impronta pop che si impone piacevolmente nella forma mentis dell’ascoltatore grazie ad un’orecchiabilità ribadita, in chiusura, dall’angolo delle coriste, le quali ripetono “a cappella” il ritornello, al suono dello schioccar di dita, un classico del be-bop!

BluedeepaI Bluedeepa si ribellano all’inflazione di tribute -e cover- band perché hanno da raccontarci molta vita, e due dischi non sono stati abbastanza, perché per loro, che collaborano con Emergency nel far circolare informazioni sulla gente che si dà da fare in giro nel mondo, dal 2000 è un’emergency anche il trasformare le loro molteplici influenze e le loro inesauste riflessioni sul senso della giostra in brani alternative che siano origi-nali e che, dopo la cupezza inquieta del loro esordio del 2002, “L’età inquieta”, appunto, scoprano nella con-sapevolezza della fragilità, il germe della forza, “In assoluta presenza di fragilità”, 2006, realizzato sotto la supervisione artistica di Saro Cosentino, già collaboratore di Peter Gabriel e produttore al fianco di Battiato. Ecco che il frontman della band, Danilo Butcovich, di sangue fiumano, autore di tutti i testi, esplode le sue storie, fuori da un “Tempo meccanico”: il brano nasce per ammonirci contro l’osservanza religiosa del Tempo, il suo usarlo come scusa per una cattiva volontà. Ma se invece si rinunciasse a qualche corsa affannosa per esaminare il silenzio e scoprirvi dentro la voce del desiderio? Il ricorso all’elettronica è appagante ma sapiente, parco, il ritmo si avvicina ad un drum&bass, salvo aprirsi in un afflato liberatorio condito da un assolo prodotto alla chitarra da una particolare sonorità, “ringhiando contro lancette che in apnea ti taglian la gola…”, mentre accordi di una chitarra ritmica in sottofondo sembrano risuonare come echi in un un vuoto popolato dalla paura di liberarsi, un doloroso ossimoro. In “Senza respiro”, una vibrazione di una sorta di allarme impazzito, è l’ossessione contrappuntistica fissa noise sopra un basso formicolante; si aggiungono poi gli altri strumenti di un arrangiamento lisergico che si offre come il sonico delirio profetico d’una voce recitante la quale però si solleva in modo post-rock verso toni salmodianti alla Lindo Ferretti. “Dentro un lunghissimo inverno” è un brano tra i più sordidi del repertorio, col suo dolente testo ripiegato su una dimensione che non intravede consolazioni, ma piuttosto è prigioniero della abrasività della chitarra indie, i rintocchi della tastiera e  le chimes che raggelano il piombo neo-gotico dell’atmosfera, impotente perfino nel ritornello contro il ritmo del mondo che indifferente non si arresta e “spacca”. Anche “Mantra” si giova di un contesto spettrale tra svisate opaleggianti, e con un primo falso inizio, subito collassato, del ritmo, su cui la voce di nuovo si impegna in uno spoken word sul corpo, rimasto senza parole, che risuonò “come un animale” nel buio d’una foresta còlta nella muta di stagione; la tematica è rinforzata dalla voce femminile sciamanica, mentre tutto è teso alla purificazione dal virus del linguaggio, per dirla alla Laurie Anderson. “Il posto dell’odio migliore” è un appostamento sinistro eppure vitale, in un territorio industrial in cui la strumentazione alla Subsonica si fa più pensata e arrugginita e radioattiva benchè altrettanto inarrestabile nei suoi lastroni gelidi in movimento lungo corridoi di ingranaggi semi-automatici e strippo-virtuali: “Il compromesso è solo un nome diverso del fallimento!..” “Gioia che sei” è il contraltare cheto ed inizialmente acustico del brano precedente; l’ipnosi di una requie faticosamente individuata richiama miagolii allucinati di chitarra sopra l’arpeggio ed i rumori di residuali rimbalzi ambientali, “e sai che senza fretta l’affanno da solo scompare…”, un tenue barbaglio di fiducia si fa strada attraverso il filo di un violino che però resta tronco. Proposta stimolante, quella dei Bluedeepa, che si raggomitola nell’intimo per poi fuggire lungo prospettive futuribili e desolate, sempre sospese, scoprendo sull’onda di testi ispirati, emozioni che conducono ad un formidabile, estraniante “Altrove” che è di “Frontiera” (“…e pianeti di lapilli che cadono a mucchi”) come il genere sapido a cui si consacra. Il nuovo CD si intitolerà “Il cielo arma d’amore coloro che non vuole vedere distrutti”, ed oltre a Saro Cosentino al quadro dei comandi, vedrà presumibilmente la partecipazione di vari performers aggiunti, uno stimolo a cui un gruppo come questo, aperto anche a contaminazioni con altre arti, cerca di non rinunciare.

Gli Uscita 17 con il loro album “Numero Primo”, uscito ufficialmente nel Novembre 2010, e con il videoclip del primo Uscita_17singolo estratto “Klein”, tirano le somme in giro per i locali di Roma, di una serie di fortunate apparizioni in diversi festival, dove sono riusciti a guadagnarsi anche apprezzamenti da parte di figure come Filip-po Marcheggiani de Il Banco del Mutuo Soccorso, segno che gli influssi derivati dal grunge ma anche dalla psichedelia elettro-funk e dal cantautorato italiano sono confluiti in una formula accattivante. “Klein” inizia appunto, dopo la citazione filmica, con un pensoso riff acustico che appare il preludio ad una canzone d’au-tore, ma poi si sviluppa in chiave rock; l’appuntamento con il testo del saggio cantore è solo rimandato, ma presto scopriamo, dopo il passaggio rarefatto, che le due anime si fondono in una multiforme costituzione non priva di un certo impatto immediato anche se ricerca giustamente sonorità di carattere e pattern di chi-tarra che si fanno tessitura ortogonale a zig zag mentre una voce campionata da qualche film di culto ci in-forma che la quarta dimensione è reale quanto le altre. Speriamo che ci dia asilo quando non sappiamo dove sbattere la testa! Il sample di “Il tuo posto c’è” ci parla di un’atmosfera ripiegata sul privato, rifinita da un sottile arpeggio chitarristico e percussioni profonde, e da una voce che nel confessarsi diversa “da come tu mi ricordavi” rivela pieghe d’affettività insospettate e apprezzabili anche dalla tipa più scettica. Forse. Ma l’incanto della vena intimista è intatto, anche se ombrato di inquietudine. “Ogni cosa” ha suoni  post-rock con distorsioni contemporanee ma una linea vocale piuttosto diretta; “vivi in mezzo alle tue bugie”, si ascolta, e ci si trova invece in mezzo al brano, ricco di incisi, finchè non riparte il riff d’impulso e di seguito si riattaccano le strofe, in una struttura variegata che presenta appunto spunti chitarristici prog ultima maniera uniti ad una verve grunge-rockettara che acchiappa sicuramente anche quelli che non vogliono sentire troppe “storie”! A proposito di “Luci”, l’unplugged live a Radio Città Futura, mi sentirei di suggerire di controllare l’enfasi da rocker del vocalist in modo da evitare che vada sia pur lievemente fuori giri: l’impasto osmotico deve essere la priorità, comunque l’empatia mostrata in “Le cose dentro te” non può che viceversa sollecitare un giudizio lusinghiero, sia per la costruzione racchiusa nello spunto pianistico, sia per l’intensità dell’emozione, aiutata dallo struggente effetto eco.

MacroScream si producono in un progressive che adduce tra le sue ragion d’essere gente come Frank Zap-pa, i MacroScreamKansas, i Genesis, Bill Bruford, Toni Levin, Chris Squire e Jaco Pastorius. A occhio e croce, parliamo lo stesso linguaggio, penso, ed ancora non ho ascoltato nulla. Poi procedo con “Get off” e vengo introdotto in qualcosa d’esotico da un ritmo piuttosto lineare su cui un violino sagoma una cadenza orientaleggiante mar-cando bene i passi, finchè non diventa un basilare contrappunto ritmico su cui si innestano prima un organo d’altri tempi, poi una tastiera sciolta che tratteggia un orizzonte su cui il violino inserisce uno spunto folk, ma i linguaggi che si susseguono sono come apparizioni sorprendenti in una miscellanea che si impernia sul vir-tuosismo dei musicisti, ma non mancando di cavar fuori sapori esoterici dai connotati positivi dalla successione degli interventi, che ci consentono visioni sghembe e frammentate di una sorta di Terra di Mezzo in cui i destini si intrecciano ai rami di mirto componendo trecce ironiche che i folletti suonano col plettro! L’impostazione sembrerebbe essere fusion, e l’output è prevalentemente strumentale, sufficientemente bizzarro da giustificare ogni volo pindarico delle sequenze di suoni. Arriva la parte vocale, ma è estremamente sciol-ta, alimentata dalla mancanza di unità, che anzi provvede a colmare con toni americani contemporanei che incanalano il brano verso un’insistita sezione arzigogolata dalla chitarra elettrica, prima della chiusura spavaldamente destrutturata. “The meaning of life” inizia con un arpeggio chitarristico acustico memore delle lezioni del passato e adagiato su un violino che elucubra visioni decadenti; la voce invece sembra prediligere il tono sarcastico, in un contrasto creativo con l’impasto da elegia sulle rovine. La voce si lascia convincere, sotto sotto, ad assecondare l’estraniamento onirico del cantastorie che nell’ultimo terzo del brano dispiega i suoi talenti nell’accenno di una giga euforica e gustosa, che torna a placarsi nel contemplare l’abbraccio di un tramonto, carico di speranze smorte, ad un bosco che del villaggio sembra non saper che farsene. “Lullaby me” inizia con un ritmo dettato dal basso, che ricorda un passaggio di “The gates of delirium” degli Yes, ma qui il sentore di funky sembra più forte, salvo dissimularsi quando entra il violino; poi la voce appare anche qui guascona a dare la sua interpretazione deviante, prima che l’organo intervenga a preparare di-scretamente l’ingresso di una lead guitar intrepida nel disegnare emersioni traslucide da pozze di cobalto ai margini della palude, dove gli struzzi con l’elmo allestiscono danze scazonti descritte dal violino folk avven-turoso. La sezione centrale è una parentesi di rimpianto per quando la solita principessa perduta veniva a spargere sul prato le sue perle rosa. Ma non ci si può credere, sarà una leggenda, e allora tutto l’ensemble si scuote e inizia a volteggiare come una farfalla tra creste di cristallo, improvvisazioni free jazz al piano e considerazioni sulla vita notturna nel terzo millennio sul pianeta di Alcazar, dove, quando sono incerti sul cosa raccontarsi al pub, creano divagazioni blues. Ma la conclusione è di nuovo fantasy, e lascia contraddit-toriamente l’ultima parola all’elfo burlone, che rifiutandosi di imitare Zappa, satireggia un inconsapevole Jason “Jay” Kay dei Jamiroquai, il quale, ad ascoltarsi infibulato in questo zibaldone prog immaginiamo vorrebbe prendere subito un Prozac alla cannella col vaporizzatore per asmatici!

il7 – Marco Settembre

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