I microrganismi, la civetteria, la Jaguar, la dea
[IL_7 SU…]
I Mad Crayon, anche se non si saranno dati questo nome in omaggio a qualche personaggio del man-ga/anime Crayon Shin-chan finito al manicomio, pure con la loro musica sembrano tracciare con un pastello (= crayon) squagliato su una tavoletta grafica a forma di ostrica, i contorni di un mood non “normale”, e vivaddìo!
“Xoanon” inizia facendo ribollire sordamente degli impulsi elettronici, poi delle pizzicate con effetto echo e pinnacoli di cristallo si stagliano sulla vetrofania grigiastra, finché il ritmo non si instaura a cavallo della struttura portandone ad una maturazione alchemica e frullatoria i diversi spunti solistici, segnati da suoni fluidi ma anche dall’incidenza militaresca di chitarrismi pronti all’assalto, ove necessario, in questi bozzoli opalescenti sonoramente avvincenti. “Preda – Part 2” è per l’appunto una composizione paradossale in cui le peregrinazioni cyborg sembrano germogliare da lastre contorte tratte da emisferi cangianti in cui l’ir-requietezza della scrittura crea masse di sonorità in contrapposizione, capaci di farsi la guerra e poi dire che sono in rapporto dialettico. In “Re Schiavo” ascoltiamo anche delle parti vocali, dalla timbrica matura e disin-volta, in linea con i canoni di versatilità multi-tasking, ma l’opulenza delle deviazioni armoniche, svisate, cam-bi di ritmo, strizzate d’occhio a stili diversi, testimonia una incessante volontà di mostrare, spadroneggiando, la propria padronanza degli stilemi prog-fusion, con tutte le segmentazioni epiche ed i preziosismi semi-am-bient che si scatenano, quasi autogenerati dalla disposizione psicologica al polimorfismo rock avanzato, un po’ come degli Ozric Tentacles che si scervellano su formicolanti microrganismi tastieristici delle lune di Sa-turno. “Preda – Part 1” inizia con un groove funky che sembra provenire, complice il coro da era dell’Ac-quario, da un pacifismo cosmico frutto di una solarità tirrenica risucchiata in un corridoio di raggi lambda, noti per la loro capacità di rendere caleidoscopici i riflessi degli occhi dei gamberetti, ma in realtà il coro è solo il sommario di frasi campionate da strofe in cui si parla d’una preda che si dibatte tra le chele d’una metropoli la quale si fa notturna e gelida al comando dei predatori: “La luce diffusa di un sole ghiacciato”. Qui strofe e ritornello, identificabili tra le salse speziate, “acchiappano” in virtù di un contemporaneo approccio ipotetica-mente indie-pop sudista, ma la visionarietà conferisce il carattere nella seconda parte, quando straborda in assoli concatenati di tastiera, spiagge di suoni che sfuggono orizzonti futuribili non privi di poesia, sulla traccia de Le Orme più cosmiche. “Sovrano dell’Illusione – Part 2” è giusto un assaggio dell’intero brano, una sezione composta da due momenti: la fibrillazione sospesa e particellare di suoni cristallini di un’ ipnoticità pianistica vergati dagli accordi metallici d’una chitarra che si stinge in macchie nel vuoto, e l’urgenza neuronale metal tenuta alla briglia da un riff controllato. Questo è tutto materiale gustoso neo-prog e psy-chedelic-crossover che riuscirà senz’altro a soddisfare le (per educazione) sottaciute pretese dei giovani più acculturati nei confronti degli sblocchi strumentali, però ci resta il dubbio che Shin, il protagonista del manga di cui abbiamo detto in apertura, a furia di leggere riviste come “Belle bambole beote in bikini”, possa finire con i neuroni sovreccitati e in disordine, ma questa è una storia che dovrà raccontarci lui stesso in camicia di forza.
Le scarpette rosse sono di un carammelloso invitante perché conservano un retrogusto da aspirante balle-rina rifiutata al provino perché ha gli occhi troppo grossi; non interessando alla proprietaria le chiacchiere degli sportivi che malignano sui suoi pensierini della sera, preferisce passare dalla sua cameretta stracarica di ninnoli al mercatino dell’usato, dove trova amiche di poche ore che sembrano uscite dallo zoo e che la trattano cordialmente come una Lulù surreale dell’anteguerra. “La maison des chats” ha un’intro da anthem poco serio, giocato da una tastiera lucida a cui si legano in tono singoli accordi simili prodotti però da voci che si stiracchiano, ovvero altrettanti miagolii umani: “Lei vive coi gatti…” attacca la voce femminile, che con civetteria puntigliosa fa da cantastorie per un’anziana dal cuore indurito e per i suoi amici felini, indipendenti quanto lei, ed intenti a creare un piccolo mondo chiuso da cui si dipartono capricciosi assoli, bizzarre rit-miche percussive e passeggiate a due passi dalla Luna: “Non mi serve il mondo degli uomini, ho imparato a saltare sui tetti”. Il gentile, favolistico contrappunto che contorna “il suo viso coi gatti in cornice contorna di un alone di leggenda un personaggio che per troppa antipatica umanità si sente costretto ad isolarsi dal con-sorzio sociale dei pazzoidi. “Come sono cambiata” ha un’andamento arrancante e pesantone tra i pensieri di chi non sa come riepilogare le cose tragicamente ridicole che sono successe, metterle in riga, salvare il sal-vabile, e alla fine resta sempre qualcosa di percussivo a raspare in penombra. E’ introspettivo, è acustico, è blues almeno quanto “Postaccio blues”, in cui i gorgheggi della cantan-te servono ad esorcizzare lo spa-vento di essersi ritrovata in un luogo non adatto ad una giovane donna con lo spirito d’altri tempi ma che per altro verso ha tutta l’ironia per dissuadere musicalmente qualunque bullo da film noir, facendone una parodia per ascoltatori in vena di curiosità. “Forbice non recidere quel volto”, da un vortice di accordi veloci e gravi di chitarra su una base percussiva da carrozzone circense carico di tamburelli e grattachecche, passa al delirio sferruzzante pulp, nella quiete di qualche inquietante tana di strega goth fumettistica che vuole “scurire il tuo candido appeal”, mentre in questo pezzo schizofrenicamente intrigante il ritornello è orientato a scongiurare ogni deriva cruenta invitando a ricorrere all’oblio per cancellare un volto ormai sgradito: “E’ solo nella me-moria che si sfalda”. Lo spirito guascone di questa suffragetta col gusto della piccola cronaca si avverte nell’ impunitaggine con cui dissemina di vocalizzi articolati le creazioni della sua vena da canzonettaia artigiana un po’ allucinata, che ottiene i suoi effetti da lente deformata d’ingrandimento con arrangiamenti cantau-toristico-sperimentali in cui gli arpeggi sghembi e nervosi delle chitarre classiche costruiscono insistenze ossessive su atmosfere sfiziose di un intimismo spesso dissonante.
Jaguanera hanno un’idea di intensità pronta a confrontarsi sia con un pozzo avvelenato a Torreòn, in Mes-sico, in cui l’”agua” sembra farsi un vanto d’essere nera, sia con una Jaguar color melanzana scuro carbo-nizzata da un gruppo di teppisti metropolitani in una zona periferica di Detroit . Dall’alto e dalle lontananze di questa inaccessibilità guadagnata col sudore di chitarre ruvide dal sangue belluino, i Jaguanera hanno la-sciato sul loro myspace la “miseria” di due soli samples, confidando che la loro qualità fosse più che suffi-ciente a spingere un recensore eretico a consultare anche il loro sito personale per gustare qualcosa di più della loro produzione, ma pur non sottraendoci orgogliosamente a questa tentazione, ci siamo trovati di fron-te al muro del webmaster che ha piazzato lì la laconica scritta: “Sito in costruzione” tanto per renderci la vita difficile e farci capire da subito che i musicisti rock non sono “pezzi di pane”, devi guadagnarti la loro fiducia mostrandogli i padiglioni delle orecchie sfondati per l’ascolto della loro potenza pura, e se non hai anche un polsino di cuoio bullonato magari gli fai pure pena. “Lullaby to scream” mette in mostra un ottimo arpeggio elettrico, che tiene in sospensione chi cerca, vagabondando in capannoni abbandonati, il segno sfrangiato di un destino pronto a spiccare il volo, dopo l’improbabile riscatto. Il testo è in inglese, come si addice a chi cer-ca consensi in un’area di mercato in cui si apprezzano gli orizzonti sonori più ampi e radici ribellistiche gio-vanili meno turbate dal cattolicesimo, e la voce suona coinvolta nelle densità narrative che affastella nell’ oscurità di un’emotività in sofferenza. “My Wave” ha forse il valore di un manifesto poetico, è forse il brano esemplare della interpretazione personale della new wave da parte dei Jaguanera, ma come possiamo saperlo noi, che non abbiamo mai ascoltato un loro pezzo per intero? Di sicuro, su una struttura ritmica alter-native di derivazione punk, a metà dello spezzone avvertiamo una gestione chitarristica dalla texture mar-tellante di stampo tipicamente indie, su cui la voce con ruvida nettezza si staglia prolungandosi in battute li-beratorie, finché la stessa chitarra piega la sua emissione tornando alla fase meno ruggente e più wave, ap-punto, con seghettatura geometrica del riff, l’intervento brillante della chitarra solista, ed una linea vocale de-cisa, fremente e di ottima tonalità, consona alle strofe avventurose di chi conquista la sua vita palmo a pal-mo. Naturalmente, tornando al discorso sul myspace, non è da noi criminalizzare i rockers, altrimenti i Ja-guanera avrebbero buon gioco nel rimproverarci di non essere venuti ad ascoltarli dal vivo al ConteStaccio, dove il nostro orecchio troppo dolce non avrebbe forse retto all’urto dell’onda, la wave, appunto!
Gli X-Aphrodite sono forse osservatori del maggiore Stryker e sono andati a scovare per lui forse in un villaggio della Tessaglia isolato da secoli, una X-woman bambolona che loro definiscono una dea, e che non è altro (e niente di meno) se non la reincarnazione mutante di Afrodite, e peraltro isterica fan degli Aphro-dite’s Child di Demis Roussos e Vangelis, da lei considerati suoi figli (visto il nome) molto prematuri, visto che quando si sciolsero come gruppo, nel 1970, non era ancora nata! “Justice” non narra la lotta di Wolve-rine col ministro Alfano, ma non manca di epicità: si origina dalla trepidante epifania d’un ritmo andante che suggerisce fragilità autunnali, ma la massa strumentale si impingua pur restando tremula, e una traccia vo-cale intimista con una notevole espressività su queste tonalità basse vi proietta sopra il suo verbo, e poi si solleva in declamazioni più apertamente gridate, ponendo la sua personalità a cavallo di una giustamente irsuta declinazione chitarristica indie che sfida tempeste di vento e cieli corruschi. Poi il rallentamento, il lirismo, lo svettare non preponderante di toni elettronici di una preziosa tastiera, l’intermezzo oscuro del riff suonato dal basso profondo, ed il digradare classicheggiante e fluido di un piano in avanzamento verso una nuova accorata invocazione a sfere superiori di giudizio, in cui un controcanto con discrezione si aggiungerà prima del finale arroventato nella solennità. “Natural Revenge” attacca senza alcuna intro, ma si avvale di un contrappunto elucubrato, su una sezione ritmica impegnata in un preciso galoppo, la voce sembra impe-gnata nel rimpianto di ciò che Madre Natura poteva offrire prima che venisse pesantemente insultata; la vo-ce sembra quella di un supremo narratore onnisciente hard rock di terza generazione, intento a sfogliare pagine magniloquenti della mitologia col giusto dosaggio dei codici miniati, ed infatti gli stop preludono alla toccante divagazione pianistica ed infine la chitarra solista in sovrapposizione lancia un tema melodico do-lente che diventa lancinante ossessione nel finale catastrofista ma meditato. “No Name” ha una germina-zione pianistica con un accordo ripetuto, ma poi la tecnica prorompe nel solfeggio comunicativo, struggente, e la malinconia trova voce in un falsetto incline al patetismo; il piano e la solo guitar si impastano, poi è il pri-mo a prevalere nell’insieme, con i toni sommessi forse di chi non sa come esprimere il disagio di un’identità negata, e infine lo fa piangendo lo sfaldamento delle piattaforme di solidarietà sociale ed il potenziamento di frigide reti neurali telematiche. “O’clock” si evolve da una progressione pianistica di brillante densità che si spinge fin dove uno spiegamento chitarristico erige un muro perimetrale di suono indie attorno ad un labirinto di orologi che si inceppano a vicenda segnando sempre una asettica ora esatta, tortura rombante e ruvida per l’aspirante Teseo, impigliato in una maglia percussiva stretta e originale nel primo inciso, da cui la voce si svincola per proseguire all’esterno, cercando a tentoni una traccia che non sia un’allucinante trappola; la svolta si replica ad un secondo inciso, in cui gli appigli si rivelano spuntoni affilati da cui guardarsi in un tempo esistenziale che non consente deviazioni anomale da percorsi prestabiliti insensati, lungo i quali non dovrebbe guidarci una Arianna stregonesca e traditrice, ma solo la tecnica strumentale che sostiene infatti gli X-Aphrodite nella loro ricerca di possenti atmosfere in cui l’incessante lavorìo della mente si fa brulichìo metafisico e sensitivo.
Il_7 – Marco Settembre
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