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Per versi italiani: viaggio nella poesia italiana

perversi italiani di vincenzo zingaro all arcobaleno di roma
[TEATRO]

perversi italiani di vincenzo zingaro all arcobaleno di romaROMA- Quando studiavo Lettere all’università, la mia professoressa di letteratura italiana e futura relatrice ci ripeteva che della poesia non conta tanto il senso quanto il suono. E a dirlo era una poetessa. Una che mi ha insegnato a leggere ad alta voce, perché solo il ritmo dà vera voce al verso.

Così, quando ho saputo dello spettacolo di Vincenzo Zingaro Per versi italiani, fino al 13 maggio al Teatro Arcobaleno, sono andato alla prima, accompagnato da una ex compagna di scuola e carissima amica, oggi ingegnere. Il letterato e la matematica. Entrambi curiosi di scoprire se quello strano reading intervallato da momenti musicali di violino, violoncello e pianoforte ci avrebbero risvegliato qualche reminiscenza liceale. Così è stato, fin dal Cantico delle Creature di San Francesco, passando per gli stilnovisti fino al Dante della Commedia e al Petrarca del Canzoniere. Dall’indignazione dell’Alfieri alla malinconia di Foscolo, dall’infinito Leopardi al più classico Manzoni. Dal trio Carducci, Pascoli, D’Annunzio all’altro trio Ungaretti, Quasimodo e Montale. Fino ai contemporanei Pavese, Gatto e Pasolini, Sanguineti, Luzi e Alda Merini. Un flusso di parole, fatto di suoni vocali e strumentali senza soluzione di continuità. Con una scenografia ridotta all’essenziale – un albero che è quasi organza, lampadine appese in alto che paiono stelle pronte a spegnersi e a riaccendersi a seconda dell’intonazione – corpi pronti a farsi antri di echi sempre più profondi. Non più carne ma pura voce. Perché, come ci ricorda Carmelo Bene ripreso nelle note di regia, la poesia è distacco, lontananza, assenza, separatezza, malattia, delirio, suono, e, soprattutto, urgenza, vita, sofferenza. In una parola, libertà. Tutto questo è stato ieri il nostro viaggio nel tempo, via via più lontani da quelle pagine polverose che più nessuno legge, perché tacciate di classicismo e quindi di vecchiume. Eppure l’invito finale rivoltoci dal palco è stato proprio a riprenderli quei libri, a farli vivere per i secoli a venire, perché – e questo è Heidegger – quello che resta lo fondano i poeti.

Matteo Mastrogiacomo

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