Gin Game
[TEATRO]
ROMA- La vita è come una partita. Si può giocare in solitaria o sfidarla a viso aperto. In quest’ultimo caso, trovare i giusti compagni dipende da noi, dalla nostra apertura al mondo. Poco importa la vittoria se il confronto è stato leale, se c’è stata condivisione.
Diventa invece tutto se la sfida è un assolo, un attacco dopo l’altro che prevede un unico superstite. Cerca di raccontarcelo Francesco Macedonio in Gin Game, fino all’11 marzo alla Sala Umberto, con due strepitosi attori: Valeria Valeri e Paolo Ferrari, anziani esiliati in una casa di riposo. Weller e Fonzia. Ricercatore di mercato in pensione il secondo, classico esempio di puritanesimo la prima. A metterli l’uno di fronte all’altra la vita, in un gioco crudele fatto di attacchi e ripicche, cattiverie gratuite e ingiurie difficili da digerire.
Perché se all’inizio tentano, come è normale che sia, di diventare amici davanti a un bel mazzo di carte, mal dissimulando un tentativo di seduzione, sono presto costretti a scoprirle quelle carte, scartando la finzione.
Succede quando l’allieva supera il maestro, quando Fonzia inizia, fin da subito, a battere Weller che si credeva un talento, che al gin aveva dedicato, negli anni migliori, ogni momento libero. E se questo suscita in lui un’effervescente interesse, gli impedisce anche di trattenere la rabbia che si fa presto invettiva. Finché in un crescendo di cazzo! e Cristo! si arriva alla sfida aperta. Due monadi senza possibilità di contatto né di riscatto da un’esistenza grigia fatta di fallimenti a lavoro e famiglie imperfette.
Entrambi abbandonati dai coniugi e dai propri figli, senza nessuno che venga a trovarli, senza un motivo vero per cui valga ancora la pena vivere. Due assi nel rintracciare i reciproci nervi scoperti, per andare a colpirli. Peccato, perché sarebbero potuti essere amici. Ma, induriti dalle sofferenze pregresse, non hanno più stimoli che l’autoconservazione, il rimanere uguali a se stessi.
Abitanti perfetti per una casa di riposo come ce ne sono tante, fatta di pillole e quotidiane ingiustizie da mandare giù; incomprensioni con pazienti e infermieri, lezioni di ballo per chi a stento riesce ancora a reggersi in piedi, pomeriggi troppo lunghi e stanze troppo piccole per contenere un’esistenza votata al martirio. E se si ride, lo si fa con un riso amaro, ché in questo spettacolo, bellissimo, non c’è ironia ma umorismo. La paura, sincera, che quel grigio ci invada, sorprendendoci un giorno a giocare la nostra partita più dura, per la quale non è prevista rivincita.
Vederlo aiuterà magari ad arrivare pronti all’appuntamento.
Matteo Mastrogiacomo
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