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Sulle Spine: Urbano Barberini

sulle spine

[TEATRO]

sulle spineROMA- Quando Urbano Barberini entra in scena ti chiedi: sarà da ridere o quel blocco di marmo a ridosso del palco va preso per quello che è? Una sontuosa lapide di una donna morta? La madre del protagonista.
Non c’è dolore però nella perdita, semmai gioia per un rapporto impossibile in vita e finalmente risolto.

Perché la fine appiana ogni cosa, e delle sofferenze passate non resta che l’eco muta delle parole affidate al ricordo di un figlio non proprio amorevole. Quelle con cui lei – la madre, castrante, ossessiva, oppressiva – costringeva il bambino a forzose diete, perché fosse il più bello. Da qui lo stagionato dandy che ci troviamo davanti, fino al 12 febbraio a Palazzo Santa Chiara.
Un istrione che abbina maniacalmente le scarpe ai pantaloni, i pantaloni alla camicia, la camicia alla giacca, la giacca alla cravatta, la cravatta al fazzoletto nel taschino, e questo al foulard, immancabile. Un aspirante attore dalla sessualità incerta, e quindi in analisi da un terapista. Che però cerca di affascinare con le proprie affabulazioni e numeri da varietà. Perché un attore – se è davvero tale – lo è in ogni momento della sua vita. Anche quando, in uno studio medico, simula un’evirazione con un finto pene di gomma.
E poco importa che le sue manie di grandezza portino alla tomba, una dopo l’altra, tutte le comparse che si affacciano sulla scena, financo quelle semplicemente evocate. Basta lui infatti per tutti. Uomo o donna che sia, poco importa. Anche se, va detto, Barberini si supera quando si traveste e indossa calze e tacchi alti, boa al collo e velina in testa. Quando, come un’amante (con l’apostrofo, certo) ferita, pianifica la vendetta. Quando capisce che distruggere è più facile che costruire. Quando si arrende all’idea che suo fratello – amato come si ama il proprio alter ego meglio riuscito – non sarà mai altro che uno specchio in cui riflettersi, imperfetto. A chi giova infatti una vita sulle spine – questo il titolo, azzeccatissimo per l’opera scritta e diretta da Daniele Falleri – se quello che invece si vuole sono i fiori degli ammiratori, dopo uno spettacolo, nel camerino? Resta semmai l’immagine di una pianta grassa. Quella portata sulla tomba della madre in un tripudio di spine. E il pesce rosso di nome Pachino, muto come le figure che si muovono attorno.
E sulle spine rimaniamo anche noi, sketch dopo sketch, in un crescendo di risa. Perché anche le storie più tragiche hanno il loro risvolto comico. Ce lo ricorda Franca Valeri nella prefazione al testo da cui nasce il tutto: Sarebbe ufficialmente una tragedia a molti personaggi con molte belle parti da contrapporre al protagonista che potrebbe avere il suo nome nel titolo. Ma è un monologo, adorabile forma teatrale, e si sa che nella solitudine siamo spesso fondamentalmente comici e facciamo delle cose che sono vere per noi e misteriose per gli altri.
Verissimo, come solo può essere un incubo.

Matteo Mastrogiacomo

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