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Le Mura meets Eclettica

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ROMA- Corri, corri, corri: la solita storia della nostra vorticosa quotidianità, che non staremo lì a sbrodolare perché andate di corsa anche adesso e una riga e mezza è già un investimento. Quelle poche volte che ci si ferma si sta sempre lì, le poche monetine in mano, a fare i conti con la molecola vagabonda del senso di noia, e certo che sempre gli stessi giri, e certo che sempre le stesse facce, e certo che ‘sta scittà è mmorta proprio, e ammazza che callaccia.


E però va a finire che il mio micidiale colpo d’occhio constata che anziché i tre-quattromila che avrebbero dovuto essere se fosse un mondo giusto eccetera eccetera, sono solo due-trecento i truebelievers che smettono le lagnanze di cui sopra, si fanno furbi e in un altrimenti evitabilissimo martedì 12 luglio danno retta a Eclettica.
Silenziosamente sbancando, peraltro, perché zitti zitti questi ragazzacci, in combutta con i sapidi pariruolo de Le Mura, IMG_8392prendono il Parco della Cervelletta di Tor Cervara e lo rendono un immaginifico anfiteatro postmoderno, nel quale ammucchiare quattro nomi che sarebbero tra i vanti indiscussi dei vostri aipad, se non steste sia andando di corsa che però anche dormendo: Pane, Kutso, Eildentroeilfuorieilbox84 e Mamavegas.
Un’ammucchiata memorabile e straniante, dunque, che a un certo punto sfugge anche all’intenzione di tutti i suoi orchestrali e attori, prende vita propria e diventa una gimcana a quattro tappe, che agguanta l’unità musicale, la dilata e la ricomprime, la tagliuzza e infine, rinnovata, la ricompatta.

Quattro atti, dunque, il primo dei quali è messo in scena dall’inatteso Pane: spulciando il web col senno del giorno dopo, si scopre che questo quasi-one-man-ensemble – capitanato da Claudio Orlandi, fattezze da Demis Roussos e ieratica espressività vocale apertamente debitrice di mitologie Seventies come Francesco Di Giacomo e Demetrio Stratos – presenta in questi giorni la nuova fatica discografica Orsa Maggiore, che segue di tre anni il debutto di Tutta La Dolcezza Ai Vermi, di cui prosegue l’opera prog tra suggestioni letterarie postdecadenti ed elegia del perduto.
Il senno live del prima, invece, racconta di una trascinata e trascinante lentezza adagiata in una veste fatta di sommessi bisbigli acustici da contrapporre alla voce buissima di Orlandi: ne risulta una dilatazione molecolare di testo e musica, come quando perdi il controllo dello zoom.

Puntuali come una multa, a ricomprimere l’ascolto e ad, ahem, aggiornarne la poetica ai giorni nostri arrivano quei quattro spudorati galli da combattimento che rispondono, se sono dell’umore, al nome Kutso. Li guardi, e vedi quattro cialtroni apparentemente strafatti di MDMA ma in realtà tremendamente lucidi, che sbeffeggiano gli Skiantos e a forza di rullarti di cartoni trovano un equilibrio sufficientemente miracoloso da dare l’impressione di poter rappresentare quasi l’unico modo credibile rimasto per parlare di passera, depressione, teatrino interrelazionale e nofuture: assisti al loro cazzeggio power, e ti accorgi che non stai ridendo, stai sogghignando. Bingo. Ringraziare convinti, anche perché hanno indiscutibilmente la sezione ritmica migliore di Roma e dintorni, e le tue chiappe prima del loro show erano più strette e meno arrossate.

IMG_8487Così accartocciato, sputazzato, appallottolato e preso a calci, il foglio musicale viene poi cauterizzato, vivisezionato e riannodato nei curiosi origami tutti storti messi in fila dagli Eildentroeilfuorieilbox84. Questo terzetto prende un giro di basso che avevate già sentito ma non consecutivamente, la  vaccata che il vostro vicino vi stava sussurrando all’orecchio proprio ora e l’immaginario antipop che avevate lasciato fuori dal frigo all’epoca del crossover e che chissà ora cosa sarà diventato e di cosa puzzerà: mescolano male e il tutto lo fanno cantare a un delfino schizzato. E il bello è che durante il loro spettacolo le scarne luci rimandano ombre e filigrane in cui avresti giurato di… no, figurati se quella cosa storta era la tua condizione individuale di precario a costante rischio di alienazione totale. Più probabilmente era una salciccia secca.
Notevole la coreografia delle boxottantaquattrine, più ancora Jamiroquai che a un certo punto sale sul palco e fa l’imitazione del bassista, più ancora la moltitudine di liane in cui si dirama un suono che scoppia di vita e trabocca di salvifica curiosità, indomita voglia di gioco, e – non guasta – Primus.

Ed è proprio per via di cotanto decostruente lavorio, che l’atto conclusivo vede consumarsi il piccolo grande gioco di prestigio di prendere le tue orecchie, lavarle come dopo mesi e infilarci dentro una forma canzone nuovamente tale, che non si sa come né perché appare come  totalmente rinnovata a seguito di quanto appena successo sul palco.
Ci pensa il fremente lirismo indie folk dei Mamavegas, un manipolo di stropicciati nobiluomini che rappresenta alla perfezione uno di quei casi in cui dici indiequalcosa e in realtà non hai detto un accidente. Perché? Perché prendete una qualsiasi delle loro cavalcate lievi e verdi, e ci trovate dentro tanta gente tutta insieme, come nel bar sotto il mare di Benni: tante storie e inclinazioni diverse che quattro note per volta si raccontano tutte insieme, quasi indipendentemente dalla volontà dei musicisti, tra chitarre che sembrano ora fisarmoniche ora lucciole, un traino percussivo fatto di adolescente romanticismo e sospiri nascosti della città da cui fuggi. E alla quale, pochi lampioni in sottofondo, a volte ti capita di tornare, grato e abbastanza stordito dopo qualche ora da ricordare. Come questa.

Francesco Chini
Foto Kutso di Daniele Romaniello

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