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Peter Frampton, Thank you Mr Churchill

Federico Ugolini

Federico Ugolini

ROMA- C’è ancora spazio nella vena compositiva di Peter Frampton, in particolar modo per la sperimentazione, segno distintivo di un artista in continua evoluzione.

Sul palco dell’Auditorium di Roma, c’è spazio anche per le tante chitarre che hanno accompagnato la sua carriera di chitarrista poliedrico, anima rock, anzi hard rock, ma con tante facce che scivolano fino alla musica progressive e via ad arrampicarsi verso composizioni più intimiste, dove i suoni sono tanti e l’elettronica della sei corde piace al pubblico romano. Sessant’anni e un disco targato duemiladieci che porta in giro per i palchi di tutto il mondo: benvenuti al Thank you Mr Churchill Tour.
Mancava da molto in Italia e si rimprovera per questo di fronte al suo pubblico. Sorriso stampato, Frampton appare in forma anche se i boccoli biondi hanno lasciato spazio ad un look più in linea con la sua età.
Serata ricca che si sviluppa su un doppio binario. Frampton infatti intreccia finemente brani storici, capisaldi del suo repertorio a nuove estremizzazioni del crossover, dimostrando come jazz, rock e blues possono avere una sola matrice comune. Il nuovo lavoro è, per sua ammissione, un viaggio autobiografico, a tratti cupo, per altri malinconico, dove spiccano gli arrangiamenti e i tanti suoni delle sue chitarre.

Frampton ripercorre a memoria la sua infanzia, ricordi importanti come quando il presidente Churchill rimandò a casa il padre durante la seconda guerra mondiale. Le dediche ai familiari ormai scomparsi sono tante, ma non mancano le canzoni storiche, quando cantava l’amore come in “Baby, i love your way”.
La voce è integra, con quel suo vezzo di cantare fuori dal microfono e coinvolgere gli spettatori. 20110324-DSC_6973_copyMentre con ironia presenta il vinile del suo disco dove in copertina campeggia uno Spitfire -aereo simbolo della seconda guerra mondiale- raggiunto dallo sguardo speranzoso di un bambino.
Il sorriso di Framtpon si ferma solo un momento quando imbracciando una Gibson diavoletto, storce la bocca per una accordatura non proprio intonata. D’altronde, si sa, lui è un perfezionista, ma sono sufficienti due giri alle chiavi dello strumento e si riparte. I timpani ringraziano per il groove incessante e una batteria pompata al punto giusto. Poi il saluto al papà e il ricordo di una chitarra che all’epoca non poteva permettersi: rossa fiammante, il sogno di tanti giovani chitarristi: una Fender Stratocaster. In fondo una sei corde per un musicista come lui, è un po’ il simbolo di una realizzazione personale e Frampton fa sfoggio dei suoi tanti gioielli di cui è fanatico e collezionista.

Di fatto il Grammy Awards nel 2006 con il disco “Fingerprints” e sedici milioni di copie vendute con il disco dal vivo “Frampton comes alive”, rappresentano due tasselli di grande merito nella sua lunga carriera.
Quel pop rock dalle facili melodie così come era stato etichettato negli anni settanta, prende forma e sostanza raccogliendo i frutti di una lunga carriera trascorsa sui palchi di tutto il mondo. Per gli increduli e i bacchettoni Frampton è ancora là, seduto su quintali di dischi con al suo fianco un premio per un brano strumentale che mette a tacere anche i più grandi guitar hero dell’era moderna. Il concerto chiude dopo due ore piene con una canzone che fu di George Harrison. Quella chitarra languida e sognante, saluta il pubblico che in silenzio si è stretto attorno al palco per saggiare meglio le note struggenti e passionali di “While my guitar gently weeps”. Bentornato Peter Frampton!

Federico Ugolini
Foto di Federico Ugolini

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