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Sguardi s-Velati II

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BUIO. Me, maybe

buio2Il nono appuntamento della rassegna Sguardi s-Velati ci porta al buio. È in assenza di luce, infatti, che le due protagoniste dello spettacolo BUIO. me, maybe possono raccontarsi senza paure e inibizioni. L’elemento luce è in primo piano fin dall’inizio, quando un’insistente intermittenza spezzetta il quadro scenico in tanti fotogrammi. Sul fondo si stagliano due figure di donna, una “rossa” vestita di nero lecca con sfida un cono gelato, l’altra, alta e magra, in veste bianca tiene un coniglio di peluche in mano. All’improvviso è  buio e il  suono dei tacchi che scendono fino alle poltrone del pubblico è l’unico elemento per individuare le figure appena conosciute, che, in una sorta di prologo tutto metateatrale, annunciano l’inizio e la durata dello spettacolo. Continuando il gioco di svelamento della finzione, le protagoniste vestono letteralmente i panni dei due personaggi sul palco, mostrando le caratteristiche fisiche che in parte determineranno i loro argomenti: Marta (Romina Bufano) con le sue forme rotonde e Valeria (Chiara Papanicolau) slanciata dalle gambe infinite. La scenografia è quotidianità incellophanata: un cesto di biancheria, una rete matrimoniale, una porta, calcinacci e pennelli. Disordine di vite da sistemare.
Le due amiche di infanzia si ritrovano dopo essersi perse per anni e si raccontano cercando di recuperare il passato. Affiorano tematiche care al cosiddetto racconto femminile: la madre, l’infanzia, i sogni irrealizzati, i figli e i mariti. L’imbarazzo iniziale dà vita ad un incipit di argomenti banali – il lavoro e i figli- per dirigersi verso l’intimo forse mai confessato prima.
Marta è una casalinga ordinata che un tempo coltivava la passione del canto, abbandonata per volere del marito. È arrivata vergine al matrimonio e avrebbe voluto essere magra come Valeria.
Valeria amava sua madre disperatamente, ma era ripagata con indifferenza. La donna era un colonnello che pretendeva l’ubbidienza di una figlia-soldato: mai abbracci o carezze. Aleggia un ricordo inconfessato di anoressia in risposta ad una figura materna anoressica nei sentimenti. Anche per lei il sesso è noioso, un gioco in cui solo uno  -il marito, l’uomo, il maschio- sembra trovare buio1soddisfazione, almeno fisica.

La luce si spegne nei momenti più intimi per coprire di un buio rassicurante il racconto.
Quando torna ad illuminarsi fiocamente la scena, le due giocano e litigano tornando bambine, e arrivano a contendersi il simbolo di quella sessualità così repressa, un fallo di gomma: il luogo dell’incontro è un albergo ad ore scelto da Marta che lo conosce bene, ma l’inconfessabile resta tale stavolta e, anche in questo caso, le deduzioni restano sospese.
La scena finale è densa ancora di simbolismi, con le protagoniste che parlano attraverso un burattino – il diavolo – e un pupazzo: parole in libertà che esprimono a cascata la vita, la morte e il tempo.
Felice è stata la scelta della regista Marianna di Mauro di servirsi della luce, o meglio del buio, per simboleggiare ossimoricamente l’emersione del sé più profondo dall’oscurità, aggiungendo un elemento di originalità ad una tematica, quella delle confessioni tra donne, che è spesso, purtroppo, in odore di banalità.

Francesca Paolini

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