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Quando il rosso è cangiante

Avevo_un_bel_pallone_rosso
[TEATRO]

Avevo_un_bel_pallone_rosso MILANO- Sono nato negli anni Ottanta e il primo evento storico che ricordo, in modo piuttosto confuso tra l’altro, è legato alla caduta del muro di Berlino, anche se non vi nascondo che all’epoca dei fatti non capivo minimamente l’importanza di quel momento, convinto, nella beata ingenuità della mia infanzia, che si trattasse della distruzione di un semplice muro.

Questo preambolo mi sembrava doveroso per sottolineare quanto lo spettacolo Avevo un bel pallone rosso, andato in scena al Teatro Litta di Milano, sia imperdibile, soprattutto per la mia generazione, una generazione che ha potuto “conoscere” gli anni di piombo solo in modo indiretto. Pièce imperdibile non solo per lo spaccato storico che regala agli spettatori, ma anche per il tema universale che pervade tutta la narrazione, ossia quello dell’incomunicabilità tra padri e figli.
Non è un caso quindi se lo spettacolo, scritto e interpretato da Angela Demattè, abbia vinto nel 2009 il prestigioso Premio Riccione, con la seguente motivazione: “la pièce, attraverso il rapporto tra un padre e una figlia, Margherita “Mara” Cagol, fondatrice delle Brigate Rosse, riesce ad affrontare uno snodo cruciale della storia italiana, che ha aperto una ferita non ancora rimarginata nella nostra coscienza civile. Il conflitto generazionale più classico tra supposta saggezza della tradizione e furori giovanili trova una singolare consistenza teatrale nel sapiente uso della lingua, in una dinamica di tensione tra l’impianto dialettale, che permette la comunicazione familiare, e l’inadeguatezza di una lingua nazionale, che la interrompe”.

Lo spettacolo inizia con un dialogo fuori campo tra una bambina e il padre sui “buoni che vincono Immy1-PalloneRossosempre contro i cattivi”. Fin dal titolo, infatti, l’autrice evoca un’infanzia ingenua e spensierata, cui presto si contrapporrà la (violenta) ribellione giovanile. Ribellione che va in scena immediatamente, mostrando al pubblico come la bambina del dialogo iniziale, Margherita Cagol, (interpretata dalla stessa Demattè) sia divenuta nel frattempo una studentessa di Sociologia di fede marxista, pronta a mettere in discussione le idee conservatrici del padre (un perfetto Andrea Castelli).
Inizia così un dialogo a due voci, inizialmente spiazzante per lo spettatore, dato che è in dialetto trentino; ma è proprio il dialetto che consente di creare un’atmosfera ancor più “familiare”. La storia è infatti ambientata principalmente in una casa di una famiglia borghese e cattolica, con un capofamiglia premuroso e all’antica, cui esplode letteralmente tra le mani la rivolta, incarnata dalla figlia. Margherita, infatti, è ammaliata dalla sirena della lotta proletaria, complice anche il fidanzato, Renato Curcio, con cui di lì a poco avrebbe fondato le Brigate Rosse.
La narrazione inizia nel 1965, come scandito inesorabilmente da un pannello sospeso sulla scena e attraversa dieci anni: dieci anni in cui il rapporto tra Margherita e suo padre si dissolve pian piano, pur rimanendo immutato l’affetto reciproco, come dimostrano le lettere scritte ai suoi genitori dalla compagna Mara e i vani tentativi del padre di far ragionare la figlia, di salvarla dalle sue idee. Nonostante ciò, la divisione tra i due si acuisce. A dividerli sono i tempi, tempi difficili in cui l’ideologia creava steccati insormontabili anche in famiglia. Steccati che diventano quasi palpabili nei dialoghi tra i due protagonisti: da un lato Margherita, convinta della bontà delle sue idee e dell’inevitabilità della lotta armata, dall’altro il padre, un uomo all’antica che non riesce a tollerare nemmeno che si metta in discussione l’autorità del prete del paese. Da un lato l’uomo, la cui esperienza gli insegna che alla fine “anche i rivoluzionari diventeranno padroni”, dall’altro la figlia, sempre più presa dalla cultura rivoluzionaria di quegli anni e desiderosa di sacrificarsi per una società più giusta. Inesorabilmente il rosso innocente del pallone diventa quello sovversivo delle Brigate Rosse: si passa così dal volantinaggio nelle fabbriche ai comunicati politici, dai processi Immy4-PalloneRossoproletari agli omicidi, fino alla tragica fine della Cagol, che perderà la vita in un conflitto a fuoco con le forze dell’ordine nel giugno del 1975.

Fin qui la storia. Per quel che concerne gli aspetti più squisitamente tecnici, l’uso del dialetto trentino, per quanto funzionale alla narrazione, inizialmente crea qualche problema, in quanto non proprio immediato e di facile comprensione. Al dialetto si alterna un italiano asettico e propagandistico, utilizzato dalla terrorista Mara per leggere i comunicati politici redatti. Complementari alla narrazione sono sicuramente le luci di Lorenzo Carlucci, capaci di creare le giuste atmosfere e le musiche di Ferdinando Baroffio che mi hanno particolarmente colpito: in alcuni momenti, infatti, sembrava quasi di assistere ad un film, tanto era il pathos che riuscivano a comunicare. Infine le scene di Guido Buganza che, sfruttando pareti mobili, disegnano l’ambiente borghese e il covo terroristico in una continua alternanza.
Probabilmente la cosa che stona con l’intero impianto drammaturgico è il finale onirico, in un testo che affonda le proprie radici nella storia più recente e meno metabolizzata del nostro Paese.

Christian Auricchio

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