Roma suona le Forme di donna
[MULTIARTISTICO]
ROMA- Dal momento che la (bio)diversità, comprendente anche i vari ceppi etnici umani, è molto di più di una buona causa da sostenere in una tavola rotonda, ma il patrimonio di variabilità genetico-culturale da salvaguardare come la più ricca e importante delle risorse, il 5 dicembre 2010 alle ora 21:00 all’Alpheus si è provveduto a dedicare a questo concetto di rispetto verso tutte le forme di vita e tutti i colori dell’umanità, e a quello che deve sostenerlo con relazione alla dimensione socio-culturale, l’inclusione, una serata di festa in cui i musicisti vincitori del concorso Roma suona dal mondo (rivolto a cittadini di ogni etnìa tra i 16 e i 35 anni) si sono esibiti davanti ad un pubblico consapevole ed entusiasta.
L’iniziativa si inserisce nell’ambito del progetto del Comune di Roma “I futuri cittadini di Roma Capitale”, che si pone come obiettivo istituzionale l’integrazione della seconda generazione di immigrati, non “stranieri”, dunque, ma nati qui tra noi, italiani ormai a tutti gli effetti, compreso l’accento romano, in molti casi, e l’amore per questa città che fondamentalmente è accogliente per storia e tradizione. Il concorso, bandito dall’associazione Makenoise e promosso appunto dall’Assessorato alla Cultura e alla Comunicazione del Comune di Roma, e con l’associazione Traslochi ad Arte come ospite curatrice della sezione arti visive, si propone di diffondere tra i giovani la cultura dell’integrazione e del senso civico attraverso la musica. Di certo con i partecipanti di quest’anno, anche se quasi tutti di origine italiana, si sfondava una porta spalancata, ed anche gli spettatori presenti hanno aggiunto ai premi ufficiali il loro entusiasmo sia per la musica sia per l’atmosfera di amicizia e condivisione tra popoli, applaudendo tutti, a cominciare dalla Presidente di Giuria Nancy Cuomo, artista ella stessa, che su base registrata intonava un pezzo di sapore romano che comunicava un senso di saggezza e serenità.
La bizzarra Brassmati Aw!rkestra, dal canto suo, oltre ad aprire e chiudere “in marcia” grazie al suo percussionista ambulante, la kermesse, con la loro strumentazione da banda di fiati zuzzurelloni e “circensi”, hanno anche avuto la funzione di riempire i momenti di “buco” tra le esibizioni dei vari gruppi con intermezzi estremamente interculturali!, di rilievo tecnico e gaiamente fracassoni e di spirito scanzonato quanto basta per evocare l’umanità scalcinata, ma vitale di “Underground” di Emir Kusturica.
I primi classificati sono stati gli Inmost Lights, con il brano “In your days”; si tratta di un duo acustico, chitarra classica e voce Niccolò Petrelli, col supporto del violino di Valentina Del Re. Nato a gennaio 2009, hanno già pronti 12 pezzi originali di un folk rock acustico tra cantautorato, melodie tradizionali e qualche incursione nella sperimentazione. I Vicolo Cieco, premiati col secondo posto per il brano omonimo, nascono dalla mente del Duca (al secolo, Mario Gesualdo), chitarrista e autore, e amano affrontare temi sociali e impegnati come la pena di morte, le morti bianche, “Il viaggio dell’immigrato” (altro loro titolo), in modo molto deciso, con il loro indie-rock. Però, dopo l’esibizione hanno regalato alcuni CD dicendo che non ha senso farsi pagare 5 o 10 euro per un CD e guadagnare sugli amici!
I GesamtKunstWerk, come si evince dal nome, si ispirano al concetto wagneriano di opera d’arte totale, impiegando anche proiezioni video a corredo delle loro esibizioni, e propongono un rock elettronico con ritmi e vapori alla Blade Runner e derive avanguardistiche di alchimìe industriali. Il brano premiato col terzo posto però si intitola “Valeria e i poliziotti”, probabilmente perché con esso hanno affrontato qualcuna delle tematiche cardine della manifestazione.
Il giovanissimo cantautore rap di origine filippina Romulo Emmanuel Salvador esprime la lotta contro le catastrofi dei guasti al computer e il disgusto verso la commercializzazione del rap, ma scavalca tutto con un pezzo come “Non c’è”, che, mentre esprime il disincanto verso le facili soluzioni, si guadagna con questa condivisibilissima accusa verso la sfiga, il Premio Speciale della Giuria.
In chiusura, fuori concorso, i Water Color, gruppo grunge-metal, hanno invaso il palco con ritmi adrenalinici a tratti marziali, un cantante sfrontato in stile shoe-gaze, la chitarra epica dagli schemi non sempre imprevedibili, ed un bassista dalla presenza oscura, col volto occultato dal lungo crine, ma musicalmente costante e incombente.
Come detto in principio, la sezione arti visive della manifestazione è stata affidata all’associazione Traslochi ad Arte, attivissima nel portare nomi emergenti dell’arte fuori dai circuiti più “ingessati”, ma dentro gli spazi in cui la cultura si vive, si racconta e si confronta con pubblici intellettualmente voraci e privi di pregiudizi. La collettiva, dedicata alle Forme di donna va definita non tanto come omaggio alla sublime diversità intellettuale e fisica del genere femminile, ma attraverso la doverosa citazione dei singoli artisti, tutti qualitativamente notevoli, nei loro diversi approcci al tema, tra richiami al classico e visioni future.
La distinta signora Marina Leoni ha mostrato chiare reminescenze di Botero nella definizione piena di due abbondanti corpi femminili, intenti a scambiarsi “Confidenze”, ed il carattere new age della sua composizione scultorea, che sulla tavola coperta da uno strato di sabbia propone le due femmine giunoniche levigatissime intente a prendere il sole, non oscura una deliziosa componente ironica: la donna che parla, con la schiena poggiata contro un ceppo di legno di recupero, per quanto si svuoti l’animo di buffi bettegolezzi, è pur sempre meno rilassata di quella che ascolta beatamente sdraiata. E la tattile solarità della scena stabilisce un nesso forte tra la leggerezza contemporanea e la tradizione artistica e artigiana.
Bruna D’Alessandro, artista proveniente dall’Accademia, ha esposto due lavori il primo dei quali, riferisce, è stato quasi un esercizio di stile, eppure, annegati in un bianco che sa d’esistenzialismo incompiuto, già si osservano i dettagli che formano la sua pittura d’esatta verosimiglianza formale ed emotiva, e la sua ricerca psicologica delle varie forme d’umanità e d’amore, come scrive nel suo Myspace. I capelli corti della ragazza in primo piano sono non casuali, essenziali come la riproduzione dell’emozione e l’incarnato immacolato, mentre soprattutto il cristallino degli occhi azzurri lascia supporre che il personaggio sia vittima di qualche aggressione da parte di una realtà desertificante o che magari sia còlta da un pensiero struggente dinanzi ad una bella fragilità simile alla sua. L’altro pezzo è invece più aggressivo, è un autoritratto con revolver puntato sotto al mento, un pittorico fotogramma di una fiction pulp, il soggetto è nudo, ma è sempre l’investigazione dell’universo oscuro dei sentimenti a motivare quel gesto di estrema ribellione, trattato con disinvolta ed eccellente definizione accademica, con un profondo chiaroscuro e ancora con lo sguardo, presente nella sua reazione drammatica, intensissimo, vivo.
Marianna Pisanu caratterizza il suo lavoro con un colore steso in modo irregolare come intonaci di un ro-manticismo scrostato su cui si impongono le forme delicate, suggerite, sinuose, a volte sul liberty, a volte grezze e dorate come reperti mistico-simbolisti (“Lady Madonna”), mentre “Malinconia” mostra una donna dai contorni sottili, quasi “sintetica”, e bianca su uno sfondo rosso con stencil gigliati.
Valeria Patrizi aveva in mostra due pezzi di dimensioni importanti, “La ballerina del circo” e “La sposa”, entrambi segnati da un certo tono teatrale. Le donne spostano i propri pensieri e la propria calibrata disposizione spaziale sulla scacchiera mentale di pavimenti a quadri, cenno metafisico in una narrazione visiva che è un tuffo nell’anima dolce di creature dal complesso mondo interiore. Le forme, a volte solo suggerite, incrementano la deliziosa sensazione di sospensione dello sguardo, tra emotività traboccante e aspettative sedate dalla calma olimpica.
Jessica Bartolini compone piccole opere su carta, anzi su fotocopie, in fondo esemplari di scrittura con la luce, trattate con applicazioni di acrilico prevalentemente rosso-arancio, che le rendono il corrispettivo pittorico di diapositive affocate in cui la spatola è la mente che impasta i ricordi spostandoli con una calda energia onirica, quasi un diario in Super 8 tagliuzzato e rimontato con sensibilità minimal-umanista. Nei quadretti dell’ultima serie, con un diverso metodo euristico rintraccia un suo tratto con cui accenna dei volti fantasmatici per lo più con toni grigi e graffiante quanto eterea gestualità, per poi profanarli con spruzzi e scolature alla Pollock concentrate, in questo caso, sulla bocca.
Antonio Fiorentino ha presentato “Invidia… ndo”, un grande lavoro a pastello dalle tinte polverose e, man-co a dirlo, pastellatissime, di un volto di donna che viene da immaginarsi carico di cerone mentre però si sbaffa di rossetto rosso sulla guancia, forse tradendo l’inquietudine nei confronti d’una sorella che fa la cu-bista in discoteca o forse l’invidia stessa del pene, perché il rossetto già ce l’ha.
Fabio Imperiale ha esibito un quadro che è un ottimo dettaglio, quasi cinematografico, degli occhi chiusi di una ragazza che tiene su il bordo del collo del suo maglione a dolce vita, un’immagine che fa un po’ nouvelle vague, perché con pochi tratti ed un trattamento acquerellato dell’acrilico nelle campiture più ampie, ci porta davvero molto vicino ad un momento di timidezza forse solo mimata o forse la coltivazione d’un sogno ancora possibile nel tepore di quel maglione, tra Valentina di Crepax e la Brigitte Bardot delle danze sui tavoli in un autunno anni ’60 in cui lo ye-yè diventa un sussurro intimista un po’ “All’ultimo respiro” di Godard. “Senza titolo” è invece più “inciso” sulla tela, la donna nuda e rannicchiata è tesa, si stringe a se stessa, e attimi di passate e presenti relazioni le si incollano addosso come i tocchi di decollage di carta di giornale che Imperiale non di rado impiega per “firmare” le sue opere più intense.
Filippo Morera, videoartista, ma probabilmente più vicino al particolare versante del videoclip, ha portato in questa mostra anche un quadro, “Mentale”, di impianto surrealista: la donna dalla massa consistente, vista di schiena, con i suoi ampi volumi seduti nel deserto con chiavi di violino sui lombi come un contrabbasso dalla potente vibrazione amorosa, solleva un braccio che si fa infiorescenza inquietante color magenta, mentre il collo sfocia in un cielo fumettistico, che quasi non dà confini al pensiero e che si disegna scolando giù sull’immagine come se dovesse produrre ad ogni goccia una consorella della protagonista. Il vaso con tulipano reclinante completa la visione onirica, elegante, d’impatto ed equilibrata nella struttura.
Il video invece inizia con uno split screen tagliato in strisce orizzontali, in cui vengono presentati diversi ritagli di un profilo multidimensionale di donna: in basso una sfilata di calzature con high heels ed i colori del glamour contemporaneo (ritmo rilassato, quasi un mantra), a metà le mani della donna pratica e industriosa che lavora all’uncinetto o cucina, messa a regime dalle logiche di produzione familiari o commerciali (ritmo che accelera), e in alto la donna-icona che cura scrupolosamente il suo trucco, le ciglia finte, quasi derealizzandosi (ritmo che si fa ossessivo). Le sovrastrutture della donna sono evidenziate da questi tre livelli di dettagli, relativi alle forme che la donna assume o che le vengono fatte assumere, ma anche da altre successive parti dell’opera, in cui una ragazza bionda, già di bell’aspetto, in una sequenza accelerata viene trasformata in diva artefatta da una squadra di truccatori e dagli strumenti di Photoshop, fino a che la videocamera zoomma all’indietro e mostra che è un manifesto, ed una bambina osserva col suo sguardo spontaneo il montaggio ferratissimo di zommate su pin-ups della pubblicità montate come se fossero altri manifesti, mentre alcune di loro si confrontano ansiosamente con la bilancia espandendosi e contraendosi come carni gonfiabili, per giunta ulteriormente “lavorati” in sequenze di operazioni di chirurgia estetica. Segue la sequenza su una donna che danza sott’acqua con un velo bianco, sogno limbico di perfezione e irreale leggerezza, difficile conquista spirituale e citazione di Bill Viola. Infine, una sezione in cui sul corpo d’una donna viene teneramente iscritto un messaggio di devozione, la certificazione poetica dello strato dell’identità femminile più profondamente sedimentato: “…forse la Terra possiede in qualche luogo occulto la curva e l’aroma del tuo corpo…”, ma anche body art intimista, espressione sottile, calligrafica e antro-pologica di una sensualità intesa come proiezione del pensiero sul corpo, e come approdo “di culto” della comunicazione tra i sessi, riscatto da ogni freddo artificio, liberazione da ogni asservimento fisico e intellettuale.
il7 – Marco Settembre
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