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Ascanio Celestini: cattivissimo/necessario

Copia_di_ascanio_celestini
[TEATRO]

Copia_di_ascanio_celestiniROMA- La fila indiana è il metodo più adatto per entrare allo stadio e in chiesa, nonché per pagare alle casse del centro commerciale. È il modo migliore per non guardare altro che il lato “b” di quello davanti e per ignorare del tutto chi ti sta dietro.

La fila indiana cancella gli altri e allontana, insieme alla diversità, il problema di dover prendere una decisione. Che fortuna, Numero 1, il capofila decide dove andare e cosa fare e tutti dietro, rilassati, tranquilli, a pensare che il mondo non esiste e che il razzismo sia solo una brutta storia che t’hanno raccontato. Questi sono i vantaggi che Ascanio Celestini ha illustrato lo scorso venerdì 12 novembre a Roma, al Teatro Quarticciolo, nel suo La Fila Indiana – Il razzismo è una brutta storia.
Lo spettacolo si articola in una serie di racconti accompagnati da musiche di Matteo D’Agostino e con Andrea Pesce ai suoni.
Tutte le situazioni narrate non sono sconosciute a chi segue l’attautore romano, che ha sviluppato e cucito insieme scene embrionali di altri spettacoli o interventi televisivi. Il mondo di Celestini è quello del piccolo paese in cui un piccolo governo decide di eliminare tutte le materie inutili insegnate a scuola, per  trasmettere l’unica cosa davvero necessaria agli adulti di domani: la fila indiana, per i motivi già elencati.
Si parla anche di Africa: bella l’Africa…è  come un bel giardino che poi però, a viverci dentro, è infestato di zanzare, topi e erbacce. E tu scappi, non ne vuoi più sapere e lo lasci lì con una piscina d’acqua puzzolente e cadaveri di topi galleggianti. Nemmeno un caffè ti concede una pausa: uno scambio continuo di sguardi canini ti ricorda che anche qui combatti una guerra contro il barista, appunti_-_ascanio_celestini_-_05_4finché entrambi vi coalizzate contro il filippino che entra a vendervi una rosa.
E altre storie, o meglio, quadri di vita in cui regnano un rassegnato cinismo, popolati da chi non vuole vedere il marcio, da chi non vuole sentire il fastidio della tragedia che milioni di persone soffrono ogni giorno, lì fuori dentro i confini del piccolo paese. Tra un racconto e l’altro, il sonoro di alcuni discorsi dell’On. Borghezio (Lega Nord) sulle palandrane mussulmane e sull’invasione che il piccolo paese sta subendo.

Celestini mette in scena il pensiero comune che riempie i bar della domenica, senza commento. Le registrazioni stesse non sono altro che un corollario ai racconti, che non sono né commentati né interpretati.
Il risultato è quello di sentirsi intorno un’insopportabile cappa di violenza, intolleranza e cattiveria. L’attore è spietato nel suo interpretare personaggi biechi, non perché commettano chissà quali atti truculenti, ma perché scelgono il conformismo per ragioni di comodità.
Stilisticamente la cifra del suo modus narrante è quella della ripetizione che si fa stillicidio di stilemi, epiteti, giri di frasi, preso a prestito da quel fastidioso intercalare tipico di tanta gente comune che infarcisce di comunque, cioè e simili ogni esternazione verbale.
Qui Ascanio Celestini dimostra la sua bravura di attore teatrale che sa tramutarsi, che sa usare corpo e voce per veicolare un senso: quello di insofferenza. Avremmo voluto alzarci e uscire dopo l’ennesimo “ Io sono un intellettuale, io sono quasi come Fini…”. La sua insopportabilità è quella che proviamo per il razzismo crudele dei suoi personaggi, uomini comuni.
Questa crudeltà sbattuta in faccia, la rappresentazione di un mondo cattivo, è necessaria in questo tempo di speranza e ottimismo, in cui nemmeno un bombarolo ha più il coraggio dell’unico vero gesto rivoluzionario. E nel bis lo vediamo in fila al Parlamento con la sua bomba in mano, mentre anche lui, aspettando il suo turno,si adegua all’ordine.

Francesca Paolini

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