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Labo Bau de L’Aire

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[TEATRO]

_MG_1465ROMA- Tra fumo e gran caldo, ventagli e boccheggi in azione tra il pubblico, dal Beckett di “Per finire ancora” passando alla pasoliniana Supplica a mia madre e finendo per i Noir Desir (Des visages, des figures), lo studio-viaggio che Gianluca Bottoni ha messo in atto con e attraverso Baudelaire ha sfruttato appieno le potenzialità spaziali dell’Atelier Meta-teatro, lì dove lo spettacolo ha avuto luogo tra il 7 e il 10 luglio scorsi.

Allestendo con corpo e voce un saliscendi emozionale tipico dello sperimentatore di stati alterati, tra estasi paniche e sprofondamenti nei più cupi pensieri, tra abbagli e visioni, tra tenerezze barcollanti e rabbia che scoppia improvvisa, tra trasalimenti dello sguardo e un vago procedere tra “ritagli sonori, sperimenti e strappi”, accompagnato e marcato con esattezza in tutti i suoi passi dal gioco di luci e ombre messo a punto da Giovanna Bellini, la ricerca di Bottoni ci ha spinti fino a capire che l’aria da respirare è proprio quella che ci manca, asfissiati tra futuro oscuro e passato che non torna come (mai) è stato. tra_MG_1398
L’aria da respirare è proprio quella che ci manca, asfissiati tra futuro oscuro e passato che non torna come (mai) è stato. C’è lo sguardo del desesperé courbettiano, quello del folle all’ultima spiaggia, con la fronte sudata e gli abiti stentatamente eleganti quanto logori. C’è il rapido capovolgersi delle apparenze nel loro contrario (vedi l’amato scheletro d’una venere essiccata dal tempo, o ancor più l’ambigua e androgina entrata in scena di Flavio Arcangeli). C’è la fatica di vivere, quella di chi al lavorare e _MG_1412produrre preferisce i versi, il vino, la vita. Bottoni- Baudelaire, flaneur d’uno spazio scenico così come d’un testo, vaga da un capo all’altro, incontra oggetti e idee, incrocia corpi e ricordi, in una inarrestabile volontà di dire e di dirsi, maneggiando coltelli e intenzioni, giocando con il fuoco, asfissiandosi in una s-tentata e incerta palingenesi, nell’impossibilità di ripartire ogni volta da zero.
E il posto che sembra oggi riservato alla poesia sembra emergere in una eclatante parodia del recitar solenne, con l’attore stesso che, seduto su poltrona girevole, con cuffie alle orecchie e maxischermo tv acceso, declama versi trangugiando sonoramente patatine, con le casse dietro le nostre orecchie ad amplificar la sublime vacuità del tutto.

Salvatore Insana

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