Il ritorno di Yoko Ono
[ARTI VISIVE]
ROMA- La promessa di un ritorno. La certezza di poter essere ed esserci di nuovo. I’ll be back (Tornerò), la nuova installazione dell’artista Yoko Ono esposta a Roma negli spazi dello Studio Miscetti (Via delle Mantellate, 14), per i quali è stata appositamente progettata, parla di questo implicando naturalmente molto altro.
Dopo 14 anni dalla sua ultima personale a Roma e dopo un lungo periodo di assenza dai circuiti artistici italiani (A Piece of Sky, Roma, 1993, Lighting Piece, Firenze, 1995, Smile Event e contemporaneamente The Yoko Ono Film Festival presso il Palazzo delle Esposizioni, Roma, 1996) che l’hanno premiata anche con un Leone d’oro alla carriera nel 2009, la promessa esplicita di questo ritorno annunciato è stata mantenuta e, come ogni ritorno a distanza di anni che si rispetti, anche quello della performer giapponese con questa opera porta con sé i segni di molti dei cambiamenti e delle evoluzioni avvenuti nel corso degli ultimi anni, che sono ormai parte integrante dell’orizzonte artistico-concettuale attuale dell’artista.
Conosciuta come artista multi-mediale, che ha sfidato continuamente i confini tradizionali dell’arte nonché per essere stata moglie e musa ispiratrice di John Lennon, Yoko Ono è conosciuta in campo internazionale per essere un’artista provocatoria, per le sue performances e opere concettuali sempre innovative, per la sua musica di improvvisazione, per i suoi film sperimentali e per essere stata tra gli artisti che hanno dato vita e formato all’inizio degli anni ’60 il movimento Fluxus.
Con I’ll be back – titolo che richiama curiosamente uno dei pezzi meno celebri scritti dal marito agli inizi della carriera con i Beatles per l’album A hard day’s night – Yoko Ono mantiene anche la promessa con se stessa di una coerenza con il suo profilo di artista. L’opera in questione esposta si compone infatti di immagini, suoni, sculture ispirati al fervore dei futuristi italiani con i quali insatura un interessante dialogo. E’ il Manifesto del movimento d’avanguardia italiano (apparso sul giornale Le Figaro nel 1909) e le sue proposizioni programmatiche che hanno suscitato l’idea della la concettualità e della creazione stessa dell’opera in questione. E’ così che l’anno scorso Yoko Ono ha raccontato come si è verificata questa infatuazione: “Era il mio ultimo giorno a Londra, e visitavo la Mostra sul Futurismo alla Tate Modern. All’improvviso il Manifesto del Futurismo colpisce il mio sguardo.(…) Mi si sono riempiti gli occhi di lacrime e non sono più riuscita a proseguire…Sì. Sì. Sì. Vogliamo cantare l’amore del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerarietà…Il coraggio, l’audacia, la ribellione saranno elementi essenziali della nostra poesia. Proprio così! (…) L’Insonnia Febbrile è il nostro mondo. Tutto sta accelerando. Ma l’arte sta andando nella direzione opposta…verso il cimitero del sonno e l’estasi illusoria. Perché?
Alcune persone si sono persino sentite offese dalla mia energia; hanno confuso l’audacia con l’aggressività e il coraggio con qualcosa da temere. (…)”.
Niente di nuovo per un’artista dalla reputazione controversa come Yoko Ono, abituata all’incontro-scontro col “mondo esterno” alla sua bolla creativa, che l’ha spesso accusata di essere una strega ammaliatrice e manipolatrice del genio di Lennon e la causa principale dei disaccordi tra i Beatles e dello scioglimento del gruppo.
In ogni caso, l’installazione esposta in questo momento a Roma merita sicuramente attenzione per la sua profondità e originalità: non capita tutti i giorni di imbattersi in un’opera-omaggio al Futurismo che ha l’intento di comunicare che il Futurismo è rock e che, come il rock, non morirà mai. Si tratta in questo senso di un vero e proprio atto d’amore da parte dell’artista nei confronti del movimento italiano e dei suoi precetti imperituri. E’ così che, in maniera essenziale, il suo dono a Marinetti e compagni mostra cinque lapidi al centro della galleria che non riportano la data di morte del Futurismo – ancora lontana e a venire – ma solo l’anno di nascita (1909) del movimento e che evoca gli esponenti principali di esso sul muro di fondo, con una gigantografia del celebre scatto del 1912 – che ispirò anche Mario Schifano – preso a Parigi che immortala “i cinque moschettieri futuristi” Marinetti, Boccioni, Russolo, Carrà e Severini. Sulle altre pareti le tre installazioni che vedono i capolavori in cartolina di Boccioni, una “natura morta” che comprende gli occhiali dalle lenti tonde e Le Figaro del 1909, e un cannocchiale a monete, di quelli che si trovano al Gianicolo, che conferisce il senso ultimo (che però non può essere espresso fino in fondo) a tutta l’opera nella misura in cui con l’apertura dell’obiettivo che dura il tempo ineffabile di un battito di ciglia, si spalanca la possibilità di guardare per un attimo e dunque per sempre un panorama e rivivere una scena cent’anni dopo, all’infinito, fino alla fine, finché c’è energia di vita e arte.
Alice Salvagni
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