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Van der Graaf Generator_ The least we can do is wave to each other

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theleastCD MUSICA- Quando i Van der Graaf Generator vanno ad intasarsi dentro i Trident Studios di Londra per regi-strare il loro secondo lavoro, The least we can do is wave to each other, correva l’anno 1969 (la pubblicazione è del 1970) ed ormai le caratteristiche del progressive rock sono sufficientemente delineate anche per i cultori dei balletti russi.

Motivo per cui la formazione a cinque del gruppo britannico, che deriva il suo nome dal generatore di Van de Graaff (la grafìa nel nome del gruppo pare che fu accidentalmente storpiata), una diavoleria in grado di accumulare carica elettrostatica così come un isterico incatenato ad un lampione accumula rabbia repressa, intuisce che è il caso di strutturare in modo più complesso le sue composizioni, primo: per superare il livello espresso con il disco precedente, The Aerosol Grey Machine, ancora legato alla vague psichedelica, e in secondo luogo, perchè veniva loro naturale, essendo tutti orientati alla sperimentazione e a seguire le spigolosità dell’ispirazione del loro leader, l’influente Peter Hammill, capace di articolare un modello non di televisione, ma di “progressive del dolore”, come mi suggerisce di chiamarlo Alda D’Eusanio. Con la differenza che i Van der Graaf incrociano l’espressività gotica e teatrale con lo psico-dramma e l’emotività più convulsa, e l’ascoltatore di buon gusto, pur chiedendosi quali scheletri abbiano mai nell’armadio questi musicisti per comporre tali sofferti poemi, tuttavia resta ammirato da tale potenza comunicativa, e non si sente in imbarazzo come uno che ascolti da dietro la porta le confidenze ed i patemi delle vicine di casa.

Hammill, dunque, seguito da Hugh Banton, l’organista, da Guy Evans, il batterista, e da David Jackson (sassofono e flauto) e Nic Potter (basso), e senza più le figure di Smith, Pearne ed Ellis, che fecero muovere i primi passi alla formazione insieme al cantante solista, tracciarono l’evoluzione in chiave classicheggiante e jazzistica del sound già discretamente cupo del disco precedente, ottenendo brani più maturi, ancora più drammatici ed evocativi, con la voce del leader in evidenza, tra aggressività, inquietudine e disperato lirismo. Con l’esistenzialismo sartriano pronto ad emergere sempre di più negli anni a venire.

Il gruppo sembrava ora sufficientemente irrobustito da elucubrare forme musicali all’altezza delle VdGGparole invasate del visionario Peter Hammill, da alcuni definito l’epitome della nevrosi; in particolare il sassofonista David Jackson aggiungeva all’impasto quei ruvidi strappi che segnavano in modo caratteristico un tessuto sonoro imbastito dall’organo gotico di Banton sull’intelaiatura ritmica severa di Guy Evans. E non mi pare il minimo!, nonostante il titolo, The least we can do is wave to each other, che però non è l’indicazione di una norma di buona educazione giusta per degli studenti dell’Università di Manchester (quali erano i tre membri-cardine) “Il minimo che possiamo fare è salutarci con la manina” (lett.: “agitare reciprocamente la mano in segno di saluto”), è piuttosto una citazione letteraria di John Minton, pittore, illustratore e scenografo, figura centrale del movimento neo-romantico degli anni ’40 del Novecento: (“We’re all awash in a sea of blood, and the least we can do is wave to each other”).

Sebbene esteriormente energico e carismatico, questo artista era afflitto da depressione e dipendente da alcool e droghe fino a morire suicida nel gennaio ’57, con un’overdose. Hammill usò la citazione in una nota diaristica del 31/12/1969, prima della pubblicazione del disco: “Beh, è l’ultimo giorno d’un nuovo decennio, e davvero sto solo salutando, con un debole sorriso sul volto ed un lacrima esitante pronta a cader giù…Siamo tutti immersi in un mare di sangue, ed il men che possiamo fare è salutarci l’un l’altro” (John Minton)” Vedi l’artwork, con un mare apocalittico, i musicisti su una zattera come naufraghi, e il metallico e sciamanico generatore che sorge dalle acque procellose attirando fulmini dal cielo violaceo. L’LP era stato registrato tra l’11 e il 14 dicembre agli studi Trident, che erano forse i più avanzati di tutta Europa a quel tempo, ed il gruppo fece buon uso della nuova tecnologia a disposizione creando una registrazione di eccellente qualità tecnica per gli standards di allora. La maggior parte dell’album fu registrata su una macchina reel to reel a 8 piste, mentre il brano “After The Flood” forse fu il primo in tutto il Regno Unito ad essere registrato sull’ultimissima macchina MM-1000 a 16 piste sviluppata da Ampex. D’altronde, Hammill è sempre stato contraddistinto da un’attrazione per le forme sfumate tra il mistico e lo scientifico, tra la mente magica e quella razionale, perciò è più che appropriato che macchinari a loro modo sacrali come quelli sopra menzionati, atti ad accumulare l’elettricità di tensioni sonore e scaricarle su masse adoranti, siano state utilizzate per fissare fosche visioni musicali sospese tra passato e futuro, e screziate dell’irrequietezza d’un presente sfuggente e dilaniato.

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