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Maulwerker

eiszeit
[MUSICA]

eiszeitROMA- Evento inaugurale di Fluxus Biennal, progetto a lungo termine composto di performance e spazi espositivi che la Fondazione Musica per Roma, in collaborazione con il critico e gran cerimoniere d’arte contemporanea Achille Bonito Oliva

…ha pensato per riportare all’attenzione il movimento transnazionale e gioiosamente sovversivo fondato in Germania nel 1962 dal lituano in esilio George Maciunas, l’insolita esperienza -spettacolo a nome Maulwerker– un affiatato collettivo di artisti e musicisti berlinesi, degni interpreti odierni dello spirito fluxus – ha letteralmente attraversato la Sala Petrassi dell’Auditorium, lo scorso 26 gennaio, facendo irresistibilmente deragliare la fruizione e la percezione spettatoriale, disancorandola progressivamente dall’ordinaria atterrita o riverita distanza tra le parti fino a ridestare forme di interazione e di coinvolgimento collettivo.
I cinque membri dell’ensemble tedesco, nella paradossale e studiata estrema serietà esecutiva – smoking nero e diligente precisione di gesti e parole – hanno ripercorso quarant’anni di creazioni fluxus proponendo un programma che dai “Gesti su piano” (1962) di Giuseppe Chiari è arrivato fino alla travolgente passeggiata sul pubblico di “Eiszeit” (Katarina Rasinski, 1997).

Ribaltando e invertendo ruoli e funzioni, con gli strumenti musicali derubricati allo status di oggetto, interscambiabili tra i componenti del gruppo (George Brecht), abbandonati al silenzio o impacchettati con carta da pesce (Dick Higgins, “Constellation No. 4”, 1963) e viceversa con l’irruzione del “non musicale” all’interno della performance, quel che di solito fa parte in modo distratto del nostro universo acustico è qui trasfigurato ed elevato a elemento di primaria rilevanza: dai fazzolettini in “Kleenex” (1962) di Wolf Vostell alle sedie di “Poem for Chairs, Benches and Ono_-_cutpieceTables” (1960) di La Monte Young, dal suono prodotto dallo sfregarsi di mani con crema di “Nivea Cream Piece” (Alison Knowles, 1962) fino a quelli emessi da un uomo malato alle prese con catarro e pillole in “Solo for Sick man” (1962) di George Maciunas.

E proseguendo poi con i pezzi più interattivi dalla durata indeterminata (“Song of Uncertain Length”, 1960, di Emmett Williams, in cui uno dei musicisti canta un motivetto ripetitivo con bicchiere d’acqua in testa: il pezzo finisce solo quando il bicchiere cade a terra), dalle reazioni impreviste (“Cut Piece”, 1962, di Yoko Ono, in cui una donna mette in mano agli spettatori un paio di forbici con le quali questi possono fare a pezzi l’abito della stessa, fino a denudamento o ad esaurimento tagli possibili; e il già citato “Eiszeit”, in cui i cinque membri del gruppo passano a quattro zampe, in gran lentezza ed emettendo suoni ferini, sulle teste dell’intero pubblico) o dai risvolti inauditi (l’esilarante “Sonata quasi una fantasia”, 1962, di Nam June Paik, in cui un pianista suona con le chiappe nude rivolte alla platea).

In uno spettacolo che con irriverenza rimette in gioco gerarchie, etichette e lo stesso status di “spettacolo” come momento al quale bisogna solo “assistere”, il percorso dei Maulwerker, scoperchiando ritualità sciaguratamente consolidate, raddoppia il suo compito: se da un lato possiede una vitalità tutta giocata sul momento dell’esecuzione, sullo stupore dell’inatteso, sul clamoroso scarto dalla norma, dall’altro, nell’affermare un’arte fatta di gesti ordinari, semplici, accessibili a tutti e insignificanti, ci consegna ad una riflessione metalinguistica il cui rovinoso e liberatorio effetto potrebbe essere un’irresistibile scoppio di risa durante il prossimo concerto di Keith Jarrett (o simile tipologia di “virtuoso”) al quale prenderemo parte.

Salvatore Insana

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