Le maniglie, l’ape, l’amplificatore a forbice
[IL_7 SU…]
Senza Essenza non sono così come sono senza un perchè, e non lo sono per essere elusivi o perchè non hanno nerbo; al contrario, si sentono privi di quel qualcosa che dovrebbe essere il nocciolo d’un frutto ma che invece è sfuggente come una monade filosofica.
No, loro ne fanno a meno; lasciano indistinguibile il centro, ma in compenso sono concreti in tutto il loro essere, sono solidi e riescono ad essere essenziali anche senza un’essenza da individuare con la lente d’in-grandimento per spaccare il capello in quattro. Per loro, l’essenza è perfino un vuoto astratto in cui si materializza il Male spirituale, mentre il loro brano fantasma (non ancora registrato) “Senza Essenza”, concepito nel 2006, recita “Sono. Non sono. Goccia senza peso”; eppure, fatto salvo il valore della poesia di un testo, il loro rock ha un peso specifico che ha indotto la giuria del Pala-contest a premiarli, dopo averli ben… soppesati, con la possibilità di “aprire” per Pino Scotto al Palarockness il 27/6/2009. La loro, soprattutto live, è un’energia compatta che non si disperde in disorientanti vaghezze: se “Nel nome” si apre solo con la voce sicura e virilmente disincantata del lead singer, tesa fino a “perdere il mio nome, per dimenticare chi sono”, è pur vero che le sue pa-role in italiano vengono prima rafforzate dallo smanettamento ritmico con annessi accenni e poi dalle strette vigorose al cuore di chitarre arroventate, che a loro volta prima tengono sul filo con ripetuti impulsi thriller e poi producono densità emozionale e ci incidono sopra i rimasugli delle “virtù spezzate”, che spingono ormai al rifiuto di ogni compromesso con la perfida e ad assoli grintosi a cui ci si aggrappa come alle maniglie dell’Amore per la Musica. “Profumo d’ali” graffia e parla coi riff, dicendo al pittore che la libertà è preziosa, non può essere imprigionata in un ritratto statico di me, ma deve espandersi in riccioli di distorsioni e calde effusioni di colore rosso pronto a colare giù come il sudore della passione. “Identità” è dedicata agli scrittori maledetti, che vendono l’anima che alzano la voce, per la voglia di gridare e piangere, per lo sforzo creativo di spremersi per il diavolo. Il ritmo va e viene, si spezza e si ricuce, perchè le fasi della composizione e scomposizione dell’identità sono molteplici e compongono una marcia accidentata. “Sipario” riguarda un altra categoria di artisti, i teatranti ormai a fine carriera, con la memoria consumata dai mille personaggi sbattuti sul palco senza sipario. Qui c’è una sezione condotta dal basso e impreziosita da uno zufolo folk, che ripercorre le trasformazioni come una tarantella da istrione, che a furia di scavarsi dentro, si scioglie la faccia insieme al cerone e all’arrangiamento che sfuma dissolvendosi in campanelline chitarristiche. “Sangue” si carica con rullate a mitraglia che sollevano le rarefazioni dell’Essenza assente in rocciose invocazioni a Sangue e Terra, a cui “dichiaro guerra” in nome del volo di chi non s’arrende.
Andrea Di Donna vive nella musica da quando era piccolo e dopo essersi fatto influenzare da tutti i personaggi disponibili che ha incontrato ed aver accumulato una quantità di esperienze di poco inferiori a quelle di Luke Skywalker, si ritrova ancora giovanissimo, ad avere incorporato una ricca quota espressività, vale a dire la Forza, per un musicista; dai tempi della militanza nel suo gruppo, i Red Light District ad oggi, s’è evoluto cucendosi addosso una identità simile a quella di un cantautore americano di vaga ascendenza country rock, ha una delicatezza nell’inter-pretazione che lo spinge a modulare il canto come quello di un Neal Young catapultato oltre la Computer Age, negli anni in cui l’indie convive con l’acustico, ed in cui l’ingenuità e l’energia, fan-no sensazione se uniti al talento. “Funeral” è una gemma in cui l’intonazione ricercata è il pro-dotto d’un sentire intenso e attento, ed anche l’arrangiamento non è privo di appigli sonori, per chi fa vita all’aperto e sente la vita che scorre in un ronzìo d’ape. L’arpeggio in “Hot smiles” è prima cheto e particolareggiato nella strofa ma si fa più arioso accompagnando il ritornello, aperto alle rassicurazioni implicite nelle cose semplici e liberatorie come i sorrisi, la vocalità è sempre chiara, senza cedimenti, ben controllata e partecipe. Il tono è più pensoso e grave in “We are ghosts”, ma la leggerezza non viene meno. La voce si apre poi ad un orizzonte ulteriore, forse ad una dimensione non terrena, sottolineata da tastiere che simulano archi. La suggestione è delicata, intima, ma efficace, tuttavia ci si chiede se è davvero questa la veste definitiva che DiDonna si è scelto, o se piuttosto non rappresenti solo la fase intermedia di un percorso che già lo ha portato all’Auditorium, a Radio Rai 1 e a X-factor ma che ancora non gli ha restituito in termini di suc-cesso tutta la serenità e l’armonia che profonde nella sua arte e che lo fa sorridere ad ogni forma di vita quando si crea intimità sociale anche con un solo spettatore! Ma lui ne ha avuti e ne avrà tanti…
Matta Clast è un progetto nato nel 2006 e poi nonostante i cambi di formazione concatenatosi in modo deciso in sonorità polimorfe ossessionate dalle strutture e canalizzate in flussi pulsanti, mentali e tecnologici che non conoscono pause tra i brani perchè epigrammatci bridge distorti li collegano tra loro sia dal vivo, per evitare di comunicare banalità al pubblico, tipo: “Siete caldi?”, sia nel loro curatissimo CD (autoprodotto!) “Lontano da qui”, elucubrazione di 68 minuti sofferta ma slendidamente riuscita, anche per lo sforzo premiato di riuscire a elaborare coi loro alambicchi musicali, formule capaci di far risultare la produzione del loro terzetto più corposa e appagante di quella che tiravano fuori quando erano in cinque ed avevano il bassista. Ormai ad ascoltare il loro output si ha l’impressione che questo tormentone ormai consunto della mancanza del bassista sia stata da loro triturata insieme ai tanti elementi ed influenze che hanno fatto confluire insieme. In fondo, Hugh Banton dei Van der Graaf Generator non suona coi pedali dell’organo anche le parti di basso? La musica, più che alternativa, verrebbe da considerarla post-rock e post-punk, ma si passa da sonorità levigate e sintetiche floydiane, se si vuole, ad “eccessi” schizoidi e cupi che mostrano il volto brutale dell’Umbria (?), da cui provengono. La voce si impegola in crudezze biliose, sussurrate o snocciolate con tono stridulo in italiano, poi perse tra turbini maliardi disseminati a bella posta negli arrangiamenti, come a non lasciar pre-supporre niente di definito a chi si vuole immergere intimamente in quei travagli armonici. “Stasi” è prigioniera di una segmentazione ad impulsi ad alta frequenza ritmica, che ricordano un calco-latore arabo entrato in paranoia, salvo poi sbloccarsi in un’apertura più losca ma distesa, prima della fuga conclusiva. “Lontano da qui” parte da colpi pesanti sferrati da un braccio meccanico con un’ incudine su un tavolo gelido su cui presto un androide che ha “bisogno di cambiarmi” inizia a ballare uno ska da barricato in casa ripetendo “Regalami qualche sorriso”. “Matta tst” è ipnotica nel vagheggiare una “notte sfasciata e illuminata”, ma subentra uno sbrocco con tratti metal e distorsioni di contorno compreso lo spazzolamento intensivo delle corde in scala ascendente, e poi discendente, come inseguendo un epilettico sonnambulo poi svegliato da cozzi del modem contro un tegamino. “Cattura” ha un andamento alternato costante sostenuto da percussioni e basso simulato, e successivamente da una chitarra fretless, il synth monta di guardia per non farsi fregare, e la chitarra con una tonalità rassegnata si lascia andare ad un assolo rassegnato, mentre la voce si fa furibonda per motivi preclusi agli organismi non bio-meccanici, ma volente o nolente, lascia spazio alla conclusione geometrico-scatolare. “Nebbia” si avvale anch’essa di un ritmo implacabile e robotico, ma le sonorità esprimono una lattiginosità che va a folate e che ha bisogno di una rabbia cieca e urlata per essere tagliata con tre lastre mulinate insieme da un amplificatore a forbice il quale, con tutta evidenza, crea un wall of sound mica male. Ermetismo sperimentale pronto per le derive psicotiche della realtà virtuale degli anni 10 del terzo millennio!
Il_7 – Marco Settembre
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