La colite, l’enigma, il citofono, la follìa
[IL_7 SU…]
Indie Boys Are For Hot Girls non fanno musica indie, a dir la verità, ma fanno girare tra platee soggiogate dal loro understatement, una quantità di note discreta ma suonata con impeto, che non impone decodificazioni ardue ma soddisfa quelli che come loro non si sentono da meno di quei bruti grezzoni che si vestono come principini per rimorchiare le ragazze che accettano solo gli inviti a cena all’Excelsior, oltre che i contratti artistici con cifra lasciata in bianco, ovviamente.
Gli IBAFHG sono meglio di questa roba proprio perchè non fanno per forza i fichetti, ma solo se la loro musica ce li porta. Il trio ha assunto la sua forma definitiva sul finire del 2008, e da allora sono decine e decine le ragazze hot che hanno sudato a fondo tutti i loro bollori davanti al palco e hanno promesso di denudarsi nei camerini del backstage, e sono reazioni del tutto naturali quan-do si ascoltano i frementi soprassalti sonori di “Cheat, Lie, Steal”, il loro EP. “We don’t like you” è la secca ma virulenta dichiarazione che degli stizziti eredi del punk sputano come una filastrocca chitarristica nevrotizzante in faccia forse ad un broker che piange miseria, “I teach” inizia inaspet-tatamente con un conguaglio di ghiribizzi elicoidali, prima che inizi il galoppo ritmico verso stati di tensione in cui in tanti hanno da imparare qualcosa, e c’è sempre qualcuno che invece dice di no, mentre il cantante insegna dettando sentenze indisponenti; sodo e incalzante. “Stupid Girl” impu-gna il tema ye-yè con la giusta scleròsi e con una compattezza strumentale che inchioda alle pro-prie cazzate una tipetta che dovrebbe solo subirla, una sezione ritmica così, invece di cinguettare col professore sessantenne! “Sadness” ha una prima parte acustica impegnata nel recupero di residue energie dopo lo spreco di una serata passata a ripulire lo sporco lasciato in salotto da un cane con la colite, mentre nella seconda parte la trattatazione diventa più corposa e colorita, gra-zie a ben posizionati sibili lancinanti sovrapposti al malloppo sonoro principale, a sua volta aggi-rato da strofe che reagiscono bene allo scoramento iniziale. “Dance and Sweat” dovrebbe conno-tarsi invece come un inno da concerto, costruito ancora una volta su riff elettrizzanti non ancora geniali, uniti ad una voce forse studiatamente lamentosa, che però proprio per questo articola le proprie schiette proteste consapevole degli sforzi che ancora sono richiesti, ma anche della fur-bizia commerciale che si porta appresso.
Cupe Vampe si configura come la manifestazione un po’ fosca, prodotta da onde accavallate, di un eterno ritorno che, tra il lusco e il brusco, trasecola di fronte al perpetuarsi sognante delle contraddizioni presenti sin dall’inizio. Dentro il caos dell’alternanza tra momenti viscerali al carbon fossile e beatitudini intraviste tra lenzuola d’argento, i componenti di questo gruppo umorale cam-minano soppesando i passi tra le ombre che incombono ed i venti che le disperdono, sulle tracce dell’”Enigma”, una composizione variegata che si materializza a partire da un arpeggio per poi montare come la pasta d’una tempesta che si screpola rivelando scaglie di verità, zone traslu-cide, assoli espressivi, passaggi non banali che inducono alla elaborazione di “Pensieri cercati”. Quest’altro pezzo, molto atmosferico, descrive lo scivolamento in una dimensione che trascolora tutte le questioni messe sul tappeto confondendo le spiegazioni con un ritmo crescente in cui la chitarra crea crogiuoli fumosi ed anche il basso parla un linguaggio oscuro che tiene conto solo del “risultato” finale della Partita. “L’uomo surgelato” è più spumeggiante, inizialmente, poi conosce momenti riflessivi che però si sollevano in aperture ad un senso di meraviglia “toccando i nostri cuori”. La voce di A. Buonprisco è ruvida e sofferta come dev’essere, perfettamente perme-ata nel focoso arrovellarsi sonoro attorno ad un’inquietudine che di sicuro scioglierà prima o poi, anche l’uomo uscito dal freezer! “Pura follia” è un episodio di grande lirismo, non solo per l’utilizzo di un violino chiamato a darci “la forza di andar via”, ma anche per il testo e le chitarre, che inci-dono la malinconia di uno stato di coscienza alterato nel novero di quelle disposizioni sfuggenti che arpeggiano l’anima. “Sono morti qui” è un requiem dall’andamento pressochè costante che agita gli spettri per dirgli che, quantomeno, c’è chi li pensa e cerca di cogliere la differenza che ancora ce ne separa, che si può quantificare in alcune Cupe Vampe.
I De Bruyn sembrerebbero un’entità rotante attorno alla figura di Andrea De Bruyn, ma è il modo in cui lo fa a creare interesse: gli altri quattro componenti non è che danzino tarantelle attorno al leader, fermo al centro del palco in posa da Padrino, ma piuttosto è il contrario, i quattro strumen-tisti suonano con una concentrazione non priva di trasporto, ma sostanzialmente fanno da cor-nice attorno alla presenza scenica del De Bruyn, che cattura il pubblico femminile con gli occhi azzurri bistrati, e coinvolge quello maschile con una gestualità molto consapevole dell’afflato libe-ratorio delle composizioni che interpreta, contando anche sui suoi studi di recitazione. Qualche autorevole osservatore ha notato che la sua tonalità ricorda un po’ quella di Francesco Renga, ma quand’anche sia vero, ciò non toglie che l’orientamento pop-rock del quintetto è fornito di una dose di programmazione al sinth che permette all’orecchio dei nostalgici degli anni ’80 di dispie-garsi in tutta l’ampiezza della cartilagine: “Tu che sei stata via ed hai visto quello che volevi da me”. Le chitarre non fanno mancare l’impatto del sostegno indie, ma la caratterizzazione è offerta dall’orecchiabilità dei brani, che uniscono ad una innegabile comunicativa quel tocco di ricerca di sonorità, apprezzabile anche da chi necessita di appigli sonori più sofisticati. Il brano “Finisce qui”, l’unico attualmente presente sul myspace, mostra, oltre a tutto ciò, anche l’arguzia di far a tratti tacere gli strumenti in contemporanea per lasciare che la voce pronunci il finale delle frasi da sola come se rispondesse ad uno scherzo al citofono, dato che la voce stessa è anche a volte filtrata, con esiti da androide bionico propagandista. Se si riuscisse in qualche occasione, a coniugare la piacevolezza dell’impasto con una struttura e delle trovate ancora più sorprendenti, e si pubblicasse il tutto sul myspace, penso che qualunque critico musicale senza fette di por-chetta sugli occhi troverebbe in ciò il motivo decisivo per cui la loro etichetta si è sentita obbligata a far firmare ai De Bruyn un contratto per almeno un decennio, ed in quel caso gli stessi regnanti del Belgio, viste le origini del front-man, non negherebbero il loro patrocinio! (www.myspace.com /debruynband).
Dei miei Dèi (http://www.myspace.com/deimieidei) s’impongono d’autorità con la forza d’una ispirazione che attinge a quel quid che rende intoccabili e venerabili i loro Dèi; se poi loro traggono la loro idealità trascendente ed il loro ascendente sulle masse dallo sguardo critico e irriverente con cui contestano anche le più arcaiche divinità scavandogli fossati sotto ai piedi, questo non è dato sapere, tuttavia la loro carica esoterica è testimoniata anche dalla lunghezza dei loro crini, che li rendono delle icone riconoscibilissime nel panorama indie tricolore. Sornioni a volte nell’atteggiamento, ma di sicuro possenti nel sound, i Dei Miei Dei con “Strano l’odore” sta-biliscono che uno strippo olfattivo per il profumo d’una donna deve avere un sostegno di chitarra ritmica paranoico per poi trovare nei mirabili assoli un appagamento scostumato che può essere indizio della ricerca di un appagamento sessuale sublimato nella musica con incoscienza soda e virulenza esecutiva. “Spazio intorno” con un diagramma chitarristico geometrizzante elettrifica anche gli angoletti della stanza degli ospiti di questo rock, non avulso da un certo classicismo, alla ricerca di “…mostruosità!” che si manifestano con uno squaglio di sei + sei corde senza l’utilizzo di crema emolliente per le dita; se questo è lo “spazio intorno” che questi musicisti cer-cano di ritagliarsi, non dubitiamo che anche gli addetti al loro impianto luci diventeranno presto celebri milionari orgogliosi della loro nevrosi produttiva. L’ardire e l’ardore di questi sacerdoti dalle “Ali di pezza”, che “rompe gli argini”, intenti come sono ad arroventare l’atmosfera come un ceppo tribale, va a provocare la furia degli stessi Dèi infidi a cui loro sacrificano zucchine ripiene. L’inci-so di “Ali di pezza” riecheggia in un ambiente dalla consistenza di opale in cui “non c’è nulla di reale, non c’è”, il ritmo avanza in crescendo attraverso questa giungla di cristalli della follia fino ad eruttare una consapevolezza sofferente che permette l’emersione in un mondo più consono e di-namico, come in “Se la notte R”: “Follia a me! Ti sfido!!” E mentre noi approviamo con calore, le impalcature strumentali fumano, la voce stinge colori poco decifrabili, ed il riff si scava ampie gallerie nella roccia ritmica. Quella che esprimono in modo vibrante e compatto i Dei miei Dèi è una tensione allucinata, un pregnante groviglio epico che favorisce l’insorgenza di uno stress positivo ottimo per rinsaldare le orecchie dopo giornate di dura sopportazione di fastidi “discreti”. L’uomo che sussurrava ai cavalli non avrebbe cantato questi brani neanche ad un ronzino sordo, ma a noi che ce ne frega? Non vogliamo mica sfidare la follia sussurrando ai cavalli!
Il_7 – Marco Settembre