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Tre donne e… una conchiglia

Tre donne e la conchiglia è uno spettacolo che riunisce due lavori segnalatisi nell’ambito dell’iniziativa FUORIFESTA promossa dal Teatro Arsenale di Milano nell’ottobre scorso, in concomitanza con la Festa del Teatro: obiettivo dell’iniziativa è quello di creare uno spazio dedicato alle giovani compagnie che spesso stentano a trovare delle occasioni per mettersi alla prova di fronte al pubblico, ma anche quello di dar voce a chi semplicemente ha voglia di presentare il proprio lavoro davanti alla platea di un teatro.

Il titolo di questa doppia pièce allude alle tre protagoniste ossia Rossella Raimondi, Giulia Buvoli e Vanessa Korn, tre attrici che riflettono su alcuni aspetti della femminilità, rappresentata da una conchiglia portata in scena all’inizio dello spettacolo come una preziosa reliquia. Nonostante questo minimo comune denominatore, i due testi affrontano in maniera completamente diversa il tema.

Il contesto in cui si inserisce la narrazione è una sala con le luci basse, dove il pubblico è accolto dallo sciabordio delle onde, mentre sullo sfondo del palcoscenico sono rappresentate una serie di conchiglie, che fungono anche da scenografia, opera di Marika Cosenza e Maria Guarnieri.
Quest’atmosfera rilassante è ben presto infranta dall’entrata in scena di Angiulina (Rossella Raimondi), protagonista della prima rappresentazione, il monologo Angiulina la Mula. La protagonista è una ragazza di provincia che, giunta a 74 anni, racconta, dalla sedia dove ormai trascorre gran parte del suo tempo, le vicende della sua vita. Tutto inizia dall’ abbandono della campagna che catapulta Angiulina in città, a Milano, dove la ragazza inizierà a confrontarsi con le difficoltà della vita fin da subito, visto che resterà incinta di un giovane studente. Per lei iniziano così i problemi e le umiliazioni che contraddistingueranno tutta la sua vita: dal difficile rapporto con il mondo del lavoro a quello altrettanto difficile con i parenti borghesi, ai problemi di una figlia anoressica, problemi che non capirà mai in pieno a causa delle sue origini contadine. Ma il vero protagonista negativo della storia è sicuramente il marito che, pur disprezzandola, sembra non riuscire a fare a meno di lei e verso il quale la protagonista medita una vendetta risolutiva. Rossella Raimondi è molto brava nel portare in scena la vitalità e la religiosità contadina di Angiulina, una donna che sembra non aver ancora superato il passaggio dal mondo contadino a quello cittadino, nonostante l’età. Questo ancoraggio alle radici contadine è ancor più marcato dalla scelta di ricorrere al dialetto mantovano, scelta che pur rendendo difficile la comprensione del testo in alcuni passaggi, avvicina Angiulina a certi personaggi verghiani incapaci di trovar fuori dal loro ambiente una vita migliore.

Una volta che le luci si abbassano su Angiulina, il rumore del mare torna a riempire la sala, portando in scena due anziane signore in accappatoio. Quello in atto però non è un semplice cambio di interpreti: l’entrata in scena di Giulia Buvoli e Vanessa Korn coincide anche con un cambiamento di stile e registro. La storia di Angiulina infatti non può certo definirsi una storia leggera o di svago, anzi. Ma a riportare un po’ di spensieratezza in sala ci pensano queste due giovani attrici. Inizia così Pièce per una conchiglia, rappresentazione “dinamica” che ricorre ad una pluralità di registri narrativi e di toni espressivi che vanno dal monologo al canto, dalla satira alla denuncia. In scena infatti si alterna il tono brioso di chi sta prendendo in giro, a quello molto più serio di chi ricorda una storia non remota e proprio per questo ancor più sconvolgente, come quella legata alle torture a cui nell’ 800 erano sottoposte le donne sorprese a praticare autoerotismo. Il testo pur ispirandosi molto sia a certi monologhi di Franca Rame che ai celeberrimi Dialoghi della vagina di Eve Ensler, ha alcuni spunti originali, legati soprattutto alla sua trasposizione teatrale che si avvale di molteplici mezzi espressivi.
In ultima analisi si può affermare che lo spettacolo finale andato in scena è superiore alla somma delle parti, in quando ognuna di esse compensa, in un certo qual modo, i limiti dell’altra, restituendo al pubblico in sala uno spaccato dell’universo femminile poliedrico e dalle tante sfaccettature. Uno spaccato, insomma, che tenta di essere il meno stereotipato e monocorde possibile.

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