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Gran Torino, regia di Clint Eastwood

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grantorinoCINEMA- Il razzismo, l’intolleranza, la solidarietà, l’amicizia, l’importanza dei valori e la ricerca di un futuro migliore, questo e molto altro si trova in Gran Torino, l’ultimo capolavoro di Clint Eastwood, che torna a recitare, pare per l’ultima volta, dopo quattro anni da Million Dollar Baby, che gli valse l’Oscar come Miglior Film nel 2005.

Lo si potrebbe definire un meraviglioso canto del cigno, visto che Walt Kowalski, il burbero e solitario protagonista, sembra condensare in sè tutta l’iconografia della galleria di mitici personaggi che ha interpretato da quarantacinque anni a questa parte, partendo dall’uomo senza nome dei grandi film di Sergio Leone, passando per l’ispettore Callaghan fino ad arrivare a quelli delle sue opere più recenti, raggiungendo però una maturità che lo porta ad abbandonare la filosofia della pistola come unica soluzione ai problemi della vita.

Walt Kowalski (Clint Eastwood) è un reduce della guerra di Corea, di origini polacche, ex operaio alla catena di montaggio della Ford, di cui conserva gelosamente e con orgoglio una meravigliosa Gran Torino del 1972.
Il film si apre sul funerale della moglie, mettendo subito in risalto il pessimo rapporto di Walt con la famiglia, i due figli e soprattutto i tre nipoti, decisamente irriverenti e maleducati. Walt è rimasto quindi solo, nel quartiere che negli anni si è trasformato e dove i suoi vicini sono stati via via sostituiti da una comunità Hmong, una popolazione del sud-est asiatico che Kowalski disprezza apertamente (li definisce “musi gialli”, facendone un tutt’uno con i coreani che in guerra hanno ucciso i suoi amici e compagni).
La sua casa sembra un’isola rimasta indietro nel tempo, con il giardino sempre curato e la bandiera americana che sventola sul porticato, dove Walt ama sedere con la classica borsa frigo piena di birra ghiacciata accanto.
Finchè un giorno il giovane vicino Thao (Bee Vang) non tenta di rubargli l’amata Gran Torino, come prova di iniziazione cui l’hanno costretto i membri di una banda giovanile, da cui Walt si ritrova a difendere lui e la sua famiglia, diventando suo malgrado un eroe per tutta la popolazione locale. Grazie a Thao e soprattutto a sua sorella Sue (Ahney Her), più emancipata nel percorso di integrazione, Walt si ritrova così ad entrare in contatto con i suoi disprezzati vicini e a conoscere meglio le usanze e la storia del loro popolo, fino a superare i suoi antichi pregiudizi, scoprendo con sua grande sorpresa di aver molto più in comune con loro che con la sua stessa famiglia, e giungendo a creare un legame fortissimo con i due ragazzi, come non aveva saputo fare con i propri figli.
Un meraviglioso percorso interiore, quello di Walt. Un percorso che parte dal razzismo, dai pregiudizi e dal disprezzo, che non risparmia nessuno, nemmeno il parroco (Christopher Carley), secondo lui troppo giovane e inesperto per poter comprendere il dramma interiore di un uomo che è stato in guerra, che arriva alla comprensione e alla solidarietà. Un percorso che lo porta alla consapevolezza che la vera differenza tra le persone non è nel colore della pelle, ma nei valori morali che portano in sè e che un futuro migliore può venire solo dall’integrazione, soprattutto per un paese che da tanti popoli diversi fu fondato.

Un film dunque carico di messaggi umani, pervaso anche di compassione e spiritualità e da una forte e molto personale visione religiosa, evidenziata dai tantissimi riferimenti, come il peculiare senso del peccato che emerge dalle due “confessioni”, attraverso le grate di un confessionale e della porta di un sottoscala, o come la meravigliosa scena che richiama un sacrificio redentore attraverso una simbolica crocifissione.
Non mancano però anche i momenti leggeri e quasi comici, essenziali anch’essi ai fini della storia, come le perfette scenette dal barbiere italiano (John Carroll Lynch), in cui lo scambio di insulti a sfondo razzista, una costante in tutto il film da parte di tutti i gruppi etnici, si trasforma in un gioco e in una manifestazione di simpatia e amicizia, quasi a voler dire che non sono necessariamente le parole in sè ad essere offensive e denigranti, ma il modo, l’atteggiamento e lo spirito di chi le pronuncia.

La prova d’attore di Clint Eastwood è eccezionale. Fin dagli esordi gli è stato rimproverato di avere solo due espressioni, una con e una senza cappello, mentre invece ha dimostrato da tempo, e qui come non mai, che la sua mimica facciale, con una sorta di equilibrata economia di movimenti, riesce a trasmettere ogni emozione e pensiero meglio di qualunque dialogo. Nulla di più efficace, per esempio, del suo sottile ringhio canino per esprimere il disprezzo che prova verso i comportamenti di figli e nipoti. E anche la regia è perfetta: senza sbavature, senza eccessi o ridondanze, costruita mirabilmente per giungere al climax e terminare poi nella simbolica scena finale.
Incredibilmente questo film è stato totalmente, e ingiustamente direi, snobbato dall’Accademy per gli Oscar 2009, mentre non ha fatto altrettanto il pubblico, che gli ha tributato invece un meritatissimo grande successo.

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