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Tribraco scazònte al trotto

[MUSICA]

Un rapporto accidentato ma vivo con le tradizioni, secondo alcuni polverose, del passato è spes-so mantenuto in qualche modo vivo negli autori che intendono condurre la loro musica oltre le contingenze consumabili del presente più facilone, e non trascinarla al limite anche per i capelli. Nel 2007 un trio uscito, ma mai del tutto, dal Circolo degli Imballabili, come si legge nel loro myspace, sceglie di ampliarsi oltre misura, diventando un quartetto con l’ingresso del basso elettrico di Valerio Lucenti, e accaparrandosi le incursioni varie ed eventuali di Giordano Esposito al sax alto.

Parliamo dei tre talenti fondatori di Tribraco, Lorenzo Tarducci (guitar e loop machine), Dario Cesarini (idem, senza patate, ma con qualche effetto in più) e Tommaso Moretti (on drums & percussions); questo è un fibrillante manipolo di stuzzicatori sonori dell’impertinenza che si propongono, a creste alte, di fare gli strumentisti a tutta manetta, salvo finte e decelerazioni a fini di depistaggio.

Durante lo show case di mercoledì 19 Novembre, in un Rialto S. Ambrogio formi-colante di torbide malinconie tardo-autunnali, il Tribraco autonomo”, che “si impone dunque come una realtà oggettiva” (come recita il loro slogan) ha eluso la sorveglianza della metrica classica, da cui il suo nome deriva, ed ha esploso i suoi scortecciamenti oggettivi in un’atmosfera da parata artigiana di impalcature per trastulli fuori posto. Dario Cesarini, con gli occhi ridotti a due fessure a mandorla chiuse in un’ampolla di concentrazioni liturgiche, fumava sul pedale. E che male c’è, se Lorenzo Tarducci non dice niente, perchè aspetta di fondare su qualcosa di consistente il suo dialogo con l’audience, a sua volta costernata ma ammirata da tanta prolusione di apoftegmi musicali? Abbiamo accennato alla metrica; in effetti questo plotone misura a passi di stivale il suo svillaneggiamento dell’Art-Jazz-Rock a volte facendolo risaltare come un’accatastarsi di passi marziali giù per una cascata di metal, altre volte sistemando insieme spunti brevi e lunghi come le sillabe di un componimento astruso paragonandole a piccoli ciottoli e lunghe travi adagiate sul feltro.

Il loro album d’esordio era dunque atteso come il caposaldo d’un armadillo piazzato e zampottone, perchè la valenzia dei musicisti non può essere messa in dubbio a cuor leggero da chi ha la mente appesantita dalle 11 tracks della loro sapienza. L’unico segreto svelato della loro caparbietà nell’esposizione della (sort of) fusion segmentata che suonano è l’alternanza di strutturazione geometrizzante, pur non euclidea, e improvvisazione celere di una libertà che oggi va intesa bene, sempre con le orecchie ma non solo. In questo modo la durezza del rock vede i suoi bastioni circondati da mulinelli di trovate, sia elettriche che acustiche, sia percussive sia sperimentali pure, come quando, in “Il cucchiaio da cucina”, suonano proprio quegli utensili domestici, in sè modesti, sopra la corona di latta di un falso principe di Edimburgo, ottenendo una certificazione solenne di quella probità errabonda che li ha portati a manifestarsi in clubs e festival jazz, ma anche a piroettare i loro schemi nelle piazze e nei teatri, senza contare le collaborazioni sfiziose e tonificanti con attori, danzatori e videomakers, ma anche con bucanieri e reincarnati.

Cracking The Whip, prodotto e distribuito da Megasound, è quindi “solo” il debutto formale di una truppa destinata a prolungare indefinitamente nel Tempo un percorso creativo intenso e carico di sbertucciamenti di pentagramma cercati e voluti! Entrando nel merito (ampio) del CD, al di là del ben accetto virtuosismo tecnico, contiamo, battendo il tempo in maniera incongrua, ben millemila cambi di tempo scazònti, e parecchissimi intrecci chitarristici come se ci fossero polipi sfrenati al posto delle dita, e questo ci pare più che onesto da parte loro. Dove personalmente resto affranto, è sull’uso dei riferimenti alla realtà culturale italiana: difficile pretendere che emerga un po’ di sano ottimismo dai fremiti di chitarre invasate dopo che si è transitati sulla Salerno-Reggio Calabria (vedi il brano omonimo, con arpeggio blueseggiante anamorfico), e figuriamoci dopo aver passato un quarto d’ora difficile ad Alghero! (“Fuga da Alghero”, ovvero: quando le Pictures of a city si tratteggiano con convinta mano disfattista). Però un quid di pop beffardo in più ci aiute-rebbe a deragliare meglio dall’allegria coatta di Cristina Aguilera, avviluppandoci in quei vortici di suoni evocativi in cui gli accorgimenti dettati dall’analisi di esempi del passato espungono la tentazione della sbruffonata senza dare nemmeno l’impressione di averci pensato. Il dirompente istrionismo è qui solo una manna per scapestrati che inseguono il mito della nostalgia della post-swinging London di Frith o di Fripp o si increspano l’anima ascoltando Frank Zappa. Non a caso, abbiamo apprezzato particolarmente le pseudo-frippertronics in “Marco Polo”, in cui conduce autorevolmente il passo una melodia inquietante ed orientaleggiante, coi minareti in pendenza, mentre la sezione ritmica dal vivo sembrava imitare filologicamente delle grattuge inox su ritmo punk-ska. Ma anche “Sax song” m’è sembrata un conguaglio di tensioni visionarie che si avvita a capofitto nel fitto dei suoi pensieri in affitto e in testacoda. I pezzi sono tutti notevoli, ma il funambolico “The human cannonball” è una perifrasi di jazz svagato con, sul disco, divagazioni simil-clarinettistiche di un sax fissato in un vuoto sfuggente mentre l’uomo-palla-di-cannone lo insegue sparato a parabola fino ad accar-tocciarsi in un viluppo di sonagli di varie origini uscendone infine non proprio illeso ma sotto forme musicali sincopate, pronto per nuovi schioppi, come un King Kong del 2008° millennio, che probabilmente si pascerà di dodecafonia in salsicce! Sarà a lui che dovremo spezzare il frustino (“Cracking the whip”) o ad una pistolera impolverata e intrisa di panna montata uscita da un western di una dimensione ulteriore e ridotta male?

Nell’ottica di un resoconto improntato alla contaminazione di good stuff, non posso non far cenno alle scenografie e allo style concept siglati da Davide Cardea, perché al Rialto, comunque, la musica non basta a se stessa ma vuole stare in buona compagnia, in un ambient che offre eleganze ariose alle circonvoluzioni più raffinate di quei cervelli che in quelle circonvoluzioni ci spaziano e ci sguazzano, e dico: diffusione sonora in quadrifonia di un Circo d’altri tempi, tema della serata (vedi foto)… Pare che Tribraco nasca da un incontro tra cultura sabina e marchigiana che si poteva evitare, ha scritto qualcuno. Ebbene, quel qualcuno ha fatto male a non evitarlo, dunque, se poteva; ormai… è troppo tardi!

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