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Mosaicizzazione di coaguli musicali

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il7Jack Water (www.myspace.com/jackwater), laureato al DAMS e insegnante di Storia del Blues, si dichiara stanco – “Tired” – di attendere parole d’amore da chi non sa dare, ma, buon per noi, il calore del suo blues sa offrire una rappresentazione comprensiva di quelle attese, sfibranti ma coi pensieri in movimento, e con le ruote – e non solo quelle – che girano, lungo autostrade in cui sferraglia una chitarra rotonda, che per fortuna sempre va e apre gli spazi esterni o interiori ai nostri viaggi più liberatori, e dona splendore alle malinconie più pure.

Ma risulta indispensabile anche l’accettazione ironica, nello snocciolamento di note pianistiche, raggranellate in “Empty Store Blues” da una chitarra indolente che lavora lasciandosi andare. “On the Madison Way”, si sente il mito on the road di tanti giri armonici galleggiare su Manhattan come il pulviscolo danza nel sole del pomeriggio in un coffee bar pieno di foto di vecchie glorie affisse alle pareti. E quasi ci piace fare i conti con la giornata conclusa in “Blues Before Sleeping”: “noi vorremmo solo dare ma sai quanto è difficile suonare”, e più tempo passa e più si si scontra con povertà, ignoranza, smania accumulatrice, che a volte sembrano irreali ma che ci avvelenano sul serio. Questo Jack Water è proprio quello vero, che chi non conosce non tarda ad apprezzare, e non accettate contraffazioni, neanche di voi stessi, come fa lui quando sbarra il passo alle maschere con note da guitar hero come Stevie Ray Vaughan, pur talvolta eseguite, quando Jack vuole, da mano volutamente lenta alla Clapton, ma mai stanca del feeling della Verità. Certo che il tempo sembra volato, da quando, nel 1966, gli Yardbirds apparvero a Sanremo e Mike Bongiorno li presentò per scherzo come “gallinacci capelloni”; ora Jack Water indaga non solo musicalmente sull’essenza inascoltata del Sè, riscattandoci perfino dalle gabbie quotidiane del convenzionale, mentre Mike fa il DJ per finta in uno spot. Cosa é cambiato? “Tutto sommato sto bene con me”, canta Jack Water, e questa è la strada che, attraverso il Blues e l’autenticità, ci riporta a casa.

Album Zootique (www.myspace.com/albumzootique) aiuta certe sonorità controverse del post-rock ad essere metabolizzate dai zingari, dai giovani e dai top manager strafatti. In questo modo si controbatte, ai diffusori d’arte boombastica, che la strumentazione musicale può, se opportu-namente elucubrata e non dissonante come uno stridore di freni, mettere in atto sperimentazioni dell’ambiente urbano che pongono in relazione il drumming più efficace con la polenta d’asfalto macinato, e il pogo con i grattacieli dell’EUR di notte. La ricerca di nuove forme scrostate ma liriche di interazione tra i suoni dal vivo e la geometria di sensazioni composte su carta a livello di testi (vedi anche le collaborazioni teatrali del duo), tratteggia infine un sound quadrangolare su un’ipotenusa molto diretta ma non secca, e soprattutto scatta all’interno di un dispositivo di gruppo in bilico tra la dematerializzazione del pianoforte a coda e il ritorno alla fisicità dell’azione chitarristica, (de)costruita quanto basta attorno a due voci forse intercambiabili. In altre parole, viene perseguita da AlbumZootique una mosaicizzazione di micronarrazioni suggestive a cura del poliedrico batterista avellinese Paolo Battista, trapiantato a Roma per riscattare materiali di recupero in dipinti mutanti e coagulare componimenti narrativi, ma anche grazie a Marco Preziuso, voce e chitarra di questo duo di gustatori che non hanno “la mente imbastardita dal vizio” ma magari son stati “trafitti da una goccia di rugiada”). Infatti, in un “Cuore criminale” che duole, tra combinazioni di accordi elettrici ben incastrati, si ascolta una voce che invoca una protezione dalla vergogna, diversamente da chi dà la caccia all’autore di Gomorra. E nella sezione finale, un sax schizoide insegue reminescenze progressive intarsiando preziosamente il brano. Un graffio congetturato che non fa male ma si interseca col pensato di molte anime metropolitan-psiche-deliche, esponenti di tribù pronte ai “Muta…Menti” (titolo del loro primo EP). Nel brano dal titolo “Assuefazione” viene poi messa in scena, in una mutevole struttura da pappatacio bulimico, un’impaziente ripiegamento su se stessi che scalpita in attesa di un’infervorazione che si spera sempre rinnovata con lo stesso candore malizioso. Non saranno ancora i Tool, ma questa roba non è certo da fool, quindi va bene anche per Josè Mourinho, a cui raccomandiamo il loro prossimo CD, in uscita nel 2009!

Out Of Place Artifacts (www.myspace.com/outofplaceartifacts) spalmano sulle sei corde un Indie Pop modellato e moderato, in cui si rintracciano influenze di R.E.M. e Radiohead. In “Disap-pointman” il tono è dolente, quasi ad esprimere il rincrescimento per non essere andati oltre; emerge lo struggente e corposo rimpianto per non aver bagnato di lacrime tutto il paesaggio delle tristezze d’un atta-pirato, quando se n’è data la possibilità. Il violino sembra offrire nel finale una sponda alla nostalgia di tutte le genuflessioni perdute. Ascoltando “Higher and higher”, invece, sembra all’ascoltatore di poter alzare il capoccetto, “tender as I can”, verso la speranza di nuove consuetudini che ci pongano in condizione di sopravanzare, tutti i giorni, le meschinerie dei di-spettosi figli del portiere. Sì, sempre più in alto si può andare, sfruttando bene gli assoli e fa-cendosi crescere rigogliose basette grunge. “When I’m lost” è una ballad malinconica da guar-dacoste in pena, non priva di una certa solennità sepolcrale degna di un gatto del Verano. “Bitter almond” è consapevolmente nervosa e vitale, tanto da farci sentire tesi verso la rivendicazione del proprio guardaroba contro ogni tentativo di appropriazione dei maglioni rustici di Kurt Cobain da parte delle Major e, certo, le considerazioni possono essere infinite ma il riff ritmico ci so-stiene, ed i toni pacatamente allucinati di tastiera e chitarra ci fanno sentire vivi, anche se alla deriva in un mare di latte di mandorle amare. Gli “Artefatti Fuori Posto” non devono relegarsi in un emporio: sono su una strada affascinante, per cuori sensibili; la percorrano calcando bene i pas-si, non temano di fare rumore facendo vibrare l’intimo e saremo con loro, masticando i lembi del fazzoletto.

Popmatica (www.myspace.com/popmatica), non devo dirlo io, ma sono ad un livello in cui possono anche “fare tutto, farlo male” (“Meglio sbagliare”) perché una volta accorciati tutti i loro incisi in modo da non farli arrivare ai quaranta secondi, hanno ottenuto che tali incisi crunchati arrivassero al cervello e al cuore entro i primi due. Se ho indovinato tutto dei loro retroscena, non è solo perché mi hanno fatto effetto i loro effetti spettrali, perché l’elettropop non si fa con la Lottomatica da sola, servono testi che assoggettino la volontà degli ascoltatori e fluidità da far all’occorrenza ballare il tip tap anche mentre si sta in autobus con l’I-Pod nel thermos. Impulsi chitarristici rotondi, sostegno ritmico affidabile, basso puntuale e non monocorde, Popmatica “modella il tempo come creta” ed io “In piena assenza di rumore”, “dovrei parlare di cosa?” Forse d’un senso d’inarrestabilità che promana da certe evocazioni melodiche sofisticate anche emo-zionalmente, assistite da arrangiamenti a cui non fa difetto nè l’arpeggio incantato nè l’ince-dere sicuro e sodo, misurato tra insurrezioni strumentali e cori coinvolgenti, che concorrono a com-porre un muro del suono istituzionalizzato da un CD in vendita su ordinazione e su I-Tunes: “Ma come hai potuto fare tutto questo, compreso i contrappunti?” Una NewWave si può “re-incar-nare”, usando solo i suoni accattivanti e la sapienza produttiva? Direi di sì, se c’è anche lo spirito di giorni nuovi in cui tra il digitale e le nacchere… è “Tutto troppo logico”! L’unico problema risulta l’assenza non del rumore ma di divagazioni strumentali più snodate e lunghe… “non lasciarmi senza…” Ma forse ci penseranno, anche senza rinunciare al pop. Si può fare!

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