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Autopatia

[ARTI VISIVE]

Non in fila al casello sulla Salerno-Reggio Calabria, ma alla Galleria L’Acquario, in via Giulia 178 è in corso l’”indagine figurativa” di Flavia Mastrella denominata Autopatia, una serie di accorpamenti oggettuali tesi verso un impossibile/futuribile antropomorfismo, che manifestano la loro neuropatìa da pilota e forse quindi la loro antipatia calcolata aderendo al ricordo di chissà quanti car-crash, di cui sono il derivato iconico ed ironico neo-dadaista.

Queste forme tridimensionali inoltre sembrano citare o segnalare acusticamente il loro atto costitutivo ogni volta che l’osservatore/fruitore schiaccia un pedale che – abbinato a ciascuna di esse – dà voce appunto ad uno stridore di freni, allo strombazzamento di un clacson, ad un rombare di motori, ad un “ignorante” “botto” stradale: tutti suoni campionati dal fonico Federico Carra, che li ha recuperati da film e da archivi mediatizzati dell’autoscontro, pare su Internet.

Analogamente attorno a questa mostra di Flavia Mastrella sono state raccolte citazioni dall’”Auto da fè” di Elias Canetti, quasi a suggerire che le opere esposte costituiscano, tutte insieme, qualcosa di più della loro sommatoria, e cioè un’unica manifestazione riassuntiva, esiziale ma anche esorcistica del potenziamento meccanico dell’assurdità umana, perennemente rivolta a profondersi contro se stessa con risultati dramm-acidi che a mente fredda possono qui far sorridere di autocompassione intesa come empatia verso quel po’ po’ d’inorganico che ci portiamo indosso e che ci fa mezzi automi. L’autrice è ben conscia della paura e della tensione che circolano sulle strade, sentimenti infagottati in involucri presunti invincibili secondo l’immagine tramandata dagli spot, ma ritiene che calcare anche in galleria quei pedali (uniti da un filo arancio come le reti di plastica dei lavori in corso, il quale concettualmente lega insieme suono, immagine e possibili traiettorie impazzite) possa indicare che il desiderio di ebbrezza velodromica non si placa neanche al cospetto della Spoon River dell’automobilista. Ogni opera, conguaglio di reperti incidentati, può infatti virtualmente raccontare/ricostruire la sua dinamica dell’accaduto o riconoscere onestamente che il guidatore avrebbe potuto fare di meglio alla data e all’ora della catastrofe: la facoltà di tenere lontano da sé ogni altro essere-al-volante, fosse anche un bue-androide, facendo lo scostante a bordo d’un proiettile che trapassa il paesaggio, viene compensata – ci informa Marco Fioramanti nel testo introduttivo – dalla voglia irrefrenabile di scaricare una suoneria sul telefonino o effettuare una videochiamata all’amante mentre a tutto gas ci si dirige verso l’alveo familiare pensando già a come ci si possa svincolare non solo autostradalmente dai vincoli coniugali oltre che dai limiti di velocità.

Le giunzioni tra le parti in gesso e quelle in plastica rigida o metalliche ottenute dalla scomposizione di “scocche” disastrate, sono avventurose e rappresentano altrettanti agganci al nostro senso estetico alterato e mutante, e ci piace spec-chiarci negli specchietti retrovisori incrinati al limite della sbriciolatura, in cui la nostra immagine si decostruisce, perché ci illudiamo che il riconoscersi carnalmente dissociati dalla macchina (non dall’amante) debba significare che, in quanto consapevoli dei guasti, siamo sani. Imprevisto bestiario dell’automobilista incazzato, questo insieme di ammonimenti plastici buffi ci proietta ansiosi verso le esplosioni asettiche di quando ci si sposterà in areonavette e sarà più difficile raccogliere gli scarti in forma di ceneri. Flavia Mastrella dice che non ha voluto appropriarsi di qualche sedile (come ha fatto, invece, per le reti dei lavori in corso) perché troppo o troppo poco materici, e perché rischiava l’accostamento al maestro americano George Segal; in realtà quella soluzione sarebbe forse sembrata troppo “comoda”, a fronte di una tematica che nega ogni accomodamento tra lamiere incerte.

Non è concessa, secondo l’autrice, neanche la comoda dicotomia vittime-carnefici, se un freno a mano viene utilizzato, “sfrenato”, come parte di un casco che ha il contachilometri in cima ad una molla che promana dalla testa, come a dire che il soggetto in questione ha la macinazione a razzo dello spazio come pensiero fisso. Il paraurti intero usato invece per la scultura con volante, da cui francamente mi vien facile sentirmi “rapito”, è stato trovato sotto ad un palo con annesso sgranellamento di catarifrangenti rossi. Il resto? Forse polverizzato.

Esorcizziamo subito pigiando un pedale e sprigionando, in galleria, uno strombazzamento concettuale di cui ci ricorderemo sulla strada di casa, zigzagando respon-sabilmente sobri tra le “lumache”, quieti nella bolla isolante del veicolo almeno finché l’addensarsi nella massa in un ingorgo non ci creerà nevrosi pur nell’aggregazione collettiva con i nostri simili. Ma chi sono, questi? Ma a differenza delle opere di Mastrella, non dovremo schiacciare il pedale per suonare il clacson, altrimenti potremmo ritrovarci con la faccia ridotta ad una maschera multi-occhiuta con cartilagine nasale sbrodolata e luce trapezoidale innestata sul cranio. Da ricordare assolutamente la collaborazione dell’artista con Antonio Rezza, assieme al quale costituisce, parole sue, “un mostro a due teste”: chissà come guida!

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