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La tecktonik tra passaparola e user generated content

Intervista a Paola Panarese
Come un virus, e come molte altre tendenze giovanili, la Tecktonik si è diffusa in breve tempo su scala internazionale, sfruttando al massimo le potenzialità della rete, del word of mouth e dei network sociali. Per affrontare il tema da una prospettiva sociologica, andando ad indagare le motivazioni profonde che orientano i consumi culturali dei giovani, abbiamo intervistato Paola Panarese, ricercatrice di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione della Sapienza di Roma, dove insegna Processi culturali e comunicativi e Pubblicità e strategie di comunicazione integrata.


Quali sono le motivazioni, personali o sociali, che spingono i giovani a condividere esperienze e conoscenze e a sfruttare tutte le possibilità offerte da internet e dalle reti sociali?
I giovani usano la tecnologia come una naturale estensione delle loro capacità di comunicare e condividere informazioni, sensazioni ed esperienze. La dimensione della comunità insita nei social network, le nuove prospettive di dialogo fra pari, le diverse opportunità di socializzazione rispetto alla dimensione offline, la percezione della libertà espressiva dietro la maschera di identità (anche) fittizie, contribuiscono a costruire un rapporto di reciproca fiducia fra giovani e tecnologie comunicative, che probabilmente crescerà nel corso del tempo. I nuovi media si configurano per i giovani come “terre di mezzo” entro cui si giocano identità e ruoli, si costruiscono e destabilizzano certezze, equilibri e saperi, si stabiliscono appartenenze e maturano conoscenze. E i ragazzi, che crescono immersi in un flusso di stimoli culturali e tecnologici, sviluppano una forma mentis in grado di gestire gli stessi stimoli. Si affacciano al mondo adulto con una consapevolezza culturale e una maturità esperienziale che gli adulti spesso non hanno o acquisiscono con fatica.

Nel caso della tecktonik abbiamo assistito ad un’esplosione del fenomeno grazie ai video diffusi su YouTube. Il mostrarsi, lasciando una traccia di sé, è una pratica ormai comune nell’universo giovanile. Come si colloca il concetto di identità in tale contesto?
Il mostrarsi è una pratica comune non solo tra i giovani. È piuttosto una prassi diffusa nella tardomodernità che i giovani mettono in atto con più naturalezza, ma non necessariamente in misura maggiore.
Basti pensare alla generica spettacolarizzazione, quella che Vanni Codeluppi chiama “vetrinizzazione sociale”, che negli ultimi due secoli ha investito i principali ambiti delle società occidentali: gli affetti, la sessualità, il corpo, l’attività sportiva, i media, il tempo libero, i luoghi del consumo, gli spazi urbani e persino le pratiche relative alla morte. I media vecchi e nuovi hanno contribuito a rafforzare il modello di comunicazione della vetrina, passando dalla fruizione collettiva (manifesti, cinema, televisione) al consumo solitario (pay tv, Internet, videogames). Ne risulta che tutto oggi viene trasformato in fenomeno da esporre, inclusa la propria (reale o fittizia) identità. Basti pensare al ruolo giocato dalle fotocamere dei cellulari, a quello delle macchine fotografiche digitali, alla condivisione dei social network o anche ai blog personali, oltre 27 milioni nel mondo. I soli blog, per esempio, non fanno altro che creare diari costantemente aggiornati e aperti a tutti, dando spazio a pensieri, immagini, video e qualsiasi cosa la fantasia consenta di esprimere. Il blog, come qualunque contenuto user generated, incluso il video caricato su YouTube, è una forma di rafforzamento dell’identità personale rispetto all’anonimato che caratterizza la rete, perché contribuisce a stabilizzare nel tempo la presenza degli individui, le relazioni interpersonali e le possibilità di esprimersi. Consente, insomma, di essere più visibili all’interno della grande vetrina sociale.

La produzione autonoma di contenuti (User Generated Content) offre ai giovani possibilità mai viste prima. Che importanza ha questo aspetto nella diffusione di mode e tendenze?
La produzione autonoma di contenuti, se sostenuta dalla diffusione che la rete offre, può favorire certamente la trasformazione di gusti personali o ristretti a gruppi limitati in mode condivise. Al tempo stesso, però, parlare di moda oggi è sempre più difficile, perché ogni generalizzazione in materia di comportamenti di consumo comporta una semplificazione che non porta molto lontano. Se è vero che in alcuni comparti del mercato o presso alcune categorie di “consumatori” si possono riscontrare atteggiamenti e comportamenti di consumo omogenei o consapevoli, è sempre più difficile riscontrare vere e proprie mode condivise, pervasive, contagiose e cogenti. Inoltre, quando anche si manifestano, le mode presentano tratti molto diversi rispetto al passato: sono sempre meno eterodirette, conformiste, diffuse. Si adeguano, dunque, alle nuove istanze di personalizzazione e creatività che segnano i gusti prevalenti nella tardomodernità.

Da semplice moda underground a marchio registrato e fenomeno di massa. Che ruolo rivestono il passaparola e le reti virali nella diffusione di una tendenza?
Rivestono un ruolo fondamentale, se si considera che viviamo nell’epoca della rete, ma anche in quella dell’economia dell’abbondanza, in cui i prodotti di massa sono destinati a contare sempre di meno, a beneficio delle nicchie (direbbe Chris Anderson). Viviamo quindi in un sistema in cui il passaparola vale più degli spot televisivi, forse.
Non è un caso che una (nuova?) forma di marketing contemporaneo sia il marketing virale, ossia una tecnica di promozione a basso costo in cui i consumatori sono indotti a farsi vettori della comunicazione, prestando al messaggio promozionale la propria credibilità. Si tratta di una pratica di comunicazione (anche d’impresa) particolarmente adatta a viaggiare su Internet, sperimentata con successo, per esempio, nell’industria discografica. Non stupisce dunque il successo transnazionale, veicolato dalla rete e saldamente legato al passaparola della tecktonik.

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