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La leggenda del pianista Novecento

La stagione 2008/2009 del Teatro Libero di Milano inizia nel miglior modo possibile con un sold-out della scorsa stagione ossia Novecento, diretto e interpretato dal direttore-attore Corrado D’Elia e in scena fino al 23 di ottobre.
L’opera è tratta da un libricino semplice e struggente, che consiglio vivamente di leggere, scritto da Alessandro Baricco. L’idea di fondo prende forma nel 1994 per la messa in scena di un’opera teatrale con Eugenio Allegri, che partecipava al Festival di Asti dello stesso anno.

 Ma la vera e propria ascesa al successo dell’opera di Baricco giunge quando la sua trama approda sul grande schermo ne “La Leggenda Del Pianista Sull’Oceano” di Giuseppe Tornatore, film impreziosito ulteriormente da una colonna sonora firmata dall’inossidabile Ennio Morricone.
Il testo in sè, pur essendo un monologo nella forma, sfugge, nella sostanza a questa classica etichettatura, conferendo alla lettura i tratti caratteristici di un vero e proprio romanzo, vivacizzato dal riporto di discorsi diretti, schegge riflessive, flashback, regalando al lettore una narrazione ipnotica e al tempo stesso surreale per i fatti narrati.

Novecento è solo la storia di un pianista, anzi del miglior pianista del mondo. E’ la storia magica di un bambino nato chissà dove, forse sulla stessa nave transoceanica, il Virginian, dove un giorno viene trovato da un macchinista. E’ la storia commovente di un uomo, capace di suonare una musica meravigliosa attraverso gli ottantotto tasti del pianoforte, ma incapace di affrontare la vita vera, tanto da non voler mai scendere da quella che diventerà la sua seconda casa, il Virginian appunto.

La narrazione della vicenda è affidata a Tim Tooney (interpretato da un Corrado D’Elia che non delude le aspettative), trombettista nell’Atlantic Jazz Band, il gruppo musicale che allieta le serate in mezzo all’oceano del Virginian, il grande piroscafo che agli albori del ‘900 trasportava viaggiatori ed emigranti dall’Europa all’America. Nel racconto vari personaggi si incontrano, si sovrappongono: un capitano claustrofobico, un timoniere cieco, una signora obesa in vestaglia rosa. Tutte queste figure particolari animano le spole del Virginian, ma l’uomo che più rimane impresso nella mente di chiunque fosse stato a bordo della nave era quella del trovatello Danny Boodman T.D. Novecento e della sua musica: il piccolo fu trovato una notte abbandonato da qualcuno della terza classe su un pianoforte a coda nero della nave. Da allora la musica cominciò ad entrare nel suo codice genetico tra lo stupore di tutti che non capivano come quel marmocchio avesse potuto imparare così bene l’uso degli ottantotto tasti del pianoforte. Da quel giorno va avanti tra una traversata e un’altra, tra un aneddoto e l’altro, tra una gioia e un dolore, tutti eventi modulati in modo perfetto da Corrado D’Elia, fino al culmine della narrazione ossia lo scontro pianistico tra Novecento e Jelly Roll Morton, “l’inventore del jazz”, imbarcatosi sul Virginian appositamente per “sfidare” il “pianista sull’oceano”, la cui fama ormai era sbarcata anche sulla terraferma nonostante non si fosse mai mosso dal suo microcosmo a forma di nave. Lo scontro sembra impari, Jelly è sicuro delle sue doti di pianista, ma alla fine è costretto letteralmente alla fuga. E’ questo uno degli ultimi momenti leggeri dello spettacolo, visto che arriva il tempo delle separazioni, la guerra è alle porte: il Virginian diventa prima un ospedale galleggiante, poi un relitto da affondare. Ma Novecento non l’abbandona mai, non se la sente di affrontare la vita, quella stessa vita che ha incantato con la sua musica, ma che non è riuscito a far sua rinunciando, anno dopo anno, ai suoi desideri. E su queste parole anche il più insospettabile degli spettatori ha l’occhio lucido.

Inutile negare che un testo simile è già di per sè una garanzia, ma un monologo teatrale necessita pur sempre di un attore capace: da questo punto di vista D’Elia incanta. Ora è Tim, ora è Novecento, ora il marinaio, ora il comandante. Grazie ad una scenografia essenziale riesce a far vedere quello che non c’è, quello che non mostra: il bimbo in fasce, la sigaretta, la cenere, il pianoforte, l’acqua. Sullo sfondo una scenografia di grandi tasti sfalsati e di cubi polivalenti, resi vivi da un sapiente gioco di luci che spesso dialogano con le musiche usate come sottofondo alla narrazione. Grazie a questo mix la narrazione scorre fluida e avvolgente. Il pubblico soffre, ride e piange con D’Elia e a fine spettacolo gli tributata l’ovazione che merita un grande attore come lui, capace di toccare in un’ora e venti di spettacolo tutte le corde delle emozioni. Consigliato a tutti quelli che amano le belle storie…

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