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Funny Games, regia di Michael Haneke

CINEMA- Addio sospirate vacanze: sigilliamo il tappo della nostra crema solare, pronti a ritornare alla vita di tutti i giorni.
Ma cosa accadrebbe se, la vacanza dei nostri sogni, si trasformasse in un vero e proprio incubo stile “Non aprite quella porta”?
Funny Games U.S. è il remake dell’omonimo film del 1997, diretto e ideato dall’austriaco Michael Haneke, famoso per la sua pellicola “La pianista”, premiato a Cannes del 2003.
Anne (Naomi Watts), il marito George (Tim Roth) e il piccolo figlioletto Georgie (Devon Gearhart) sono il classico prototipo della famiglia felice.
Tra gare di “Indovina il componimento classico” e spensierate risate, i tre si dirigono nella loro casa sul lago per le consuete vacanze estive.
Eppure qualcosa sembra essere cambiato: i vicini Fred e Eva hanno un comportamento bizzarro e i loro apparenti ospiti, due adolescenti dall’aria impeccabile (Michael PittBrady Corbet), sembrano essere apparsi dal nulla.
La situazione degenererà non appena, i due adolescenti, s’introdurranno nella casa di Anne e George minacciandoli di morte.
Haneke getta le basi di un gioco sadico, il suo “Gioco divertente”, che mette alle strette una serie di famiglie decadute nel baratro di un mondo immaginario, violento e inconcepibile.
Il gioco è semplice: scommettere se in dodici ore la famiglia felice farà una brutale fine o se, magari, riuscirà nell’insperata impresa di salvarsi.

La pellicola (e non solo questa) è ispirata al caso di cronaca del 1924 che vide due ricchi universitari, Leopold e Loeb, uccidere a sangue freddo il quattordicenne Bobby Franks.
Definito uno “Shot-For-Shot” (scena per scena), il remake del 2008 di Funny Games si presenta come l’identica copia del film del ’97.
Il regista Haneke prende a cuore la sua opera originaria riproponendo le ambigue inquadrature fuori campo, come i folli dialoghi dai risvolti orrorifici, desideroso di sconvolgere nuovamente il suo pubblico.
In questo modo si trasforma il prodotto austriaco in un classico thriller americano, con un cast del tutto rinnovato che supera le aspettative del medio spettatore, grazie alla propria intensità interpretativa.
Dalla piangente e mutilata Naomi Watts, ad un sempre “verde” Tim Roth che fanno da perfetto sfondo ai due veri protagonisti: Pitt e Corbet diventano i malvagi perfetti, artefici di ogni insensato dolore e giocano con il loro aspetto da bravi ragazzi, proclamandosi i sovrani assoluti della pellicola, capaci di scegliere il finale che più gli aggrada.

Perché l’opera di Haneke non solo colpisce la società di oggi, tra ragazzi viziati dalla vita agiata che perdono in un certo senso la loro anima, ma cerca di mostrare il potere dello “spettacolo” e del suo “spettatore”.
In questo modo, noi stessi, diventiamo i perfetti complici dei due agghiaccianti assassini, colloquiando con loro e osservandoli negli occhi non appena il loro sguardo si gira dalla nostra parte.
Ci chiedono consigli, ci lasciano partecipare e ridono insieme a noi, perché in fondo tutto è una finzione.
Il film stesso è una finzione e i due protagonisti lo sanno, fino al punto di uccidere senza rimorsi, per il puro divertimento di farlo, lasciando scarse speranze per il finale.
Con il telecomando del potere televisivo, possono salvarsi, fare rewind con estrema facilità e prevedere le mosse più classiche delle loro vittime.
Cadiamo nell’ansia più assoluta e ci lasciamo avvolgere da questo film-non film, privo di sensi e di giustificazioni, abbandonandoci con disgusto ad una violenza malsana che va aldilà di ogni concezione umana.
Non si riesce a pieno a comprendere la pellicola di Haneke e il fastidio della visione diventa sempre più forte con il passare dei minuti.
L’inizio, così, ci insegna: se la musica classica viene soppiantata d’improvviso dalla rumorosa “Bonehead” di John Zorn, non c’è da aspettarsi nulla di buono.

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