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Flux- Art e Tv- Blob

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Perché mai la TV non sarebbe proprio il luogo più adatto dove esibire l’arte? Forse perché in essa si ritrova diffuso e spalmato a bella posta e in bella mostra l’inestetico? E questo chi l’a-vrebbe sentenziato? Per cercare affannosamente di stabilire la verità, immaginiamo che un si-gnor quattrocchi, munito di doppie lenti per scrutare oltre la sua miopia, schiacci i tasti del tele-comando come fossero quelli dell’ascensore ritrovandosi schizofrenicamente e a velocità istantanea su “piani” diversi di un condominio monstre, in cui i nuovi inquilini invitano a festicciole alla moda organizzate nei “piani alti”, qulli più vicini ai satelliti e al futuro che conta.

In questo andiri-vieni tra l’alto e il basso costui potrebbe scoprire infatti che il basso è stato livellato verso l’alto, e rispetto alla prima metà degli anni ’90 osserviamo che le sigle e le scenografie dimostrano quanto gli alti dirigenti abbiano riflettuto sul senso e la portata innovativa, rispettivamente, di videoarte e videoinstallazioni.

Molte cose sono cambiate da quando l’irruzione dei privati nel mondo del broadcasting ha determinato un’innovazione generale sul piano dei linguaggi che avrebbe presto dimostrato il suo effetto trainante su tutto il sistema, nei suoi vari aspetti positivi e negativi. A noi, oggi, titillati e sopraffatti da un’offerta mai così diversificata, e studiata per soddisfare un pubblico che forse inclina, per sua naturale tendenza evolutiva, a frammentarsi in piccole tribù, piace ricordare quando tutto ciò ha cominciato ad essere visto nella sua “poesia”, una disgregazione robotizzante in un flusso ininterrotto di percezioni e stimoli, più o meno culturali, che si manifesta nell’uso sclerotico (gli estimatori del Grande Fratello diranno: sclerato) del telecomando.

Attualmente questo scettro del consumo audiovisivo ha moltiplicato a dismisura le sue funzioni ed ha figliato una genìa di remote-controller, ma già al tempo la visione casalinga di quello che allora era l’elettrodomestico inquieto per eccellenza dipendeva dall’esito della quotidiana contesa per il possesso del telecomando, su cui l’impagabile Aldo Grasso (ma non solo lui) scrisse qualche succosa pagina, mentre gli inserzionisti pubblicitari e gli assi del marketing che gli davano man forte lottavano contro il nipotino che appunto, telecomando in pugno, inseguiva il record di cambi al minuto gettando le basi per diventare il regista isterico del suo futuro di prosumer, cioè consumatore attivo, con ambizioni da autore. E qui veniamo all’aspetto artistico della questione: non solo gli autori televisivi e gli organizzatori dei palinsesti pensavano che l’estetica della neo-televisione passasse attraverso la segmentazione in Pillole, Schegge, Sviste e Strisce, ma anche alcuni tra gli stessi fruitori del mezzo, resi sensibili alle grammatiche televisive come i loro padri lo erano stati per quella del cinema, cominciarono ad armarsi dei primi videoregistratori proprio per metter su dei palinsesti personali dal gusto di spezzatino, a volte prima di passare ai primi esperimenti registici con la creazione di corti (ancora una volta, la brevità era d’obbligo). I ritmi degli spot pubblicitari avevano condizionato il linguaggio fino a questo punto, e la cultura per “passare”, doveva lasciarsi segmentare.

L’ormai mitologico eppure ancora sopravvivente programma Blob coglieva proprio questa rigogliosa impollinazione di frammenti e ne faceva “discorso” culturale, teoria estetica ed insieme però impianto critico che illumina sul senso mentre ne mostra il suo disfacimento o, viceversa, irradia una sorta di pattume tritato ricavato da tutti gli sforzi organici dei programmisti di produrre contenitori apprezzabili secondo le nuove regole. E chi avrebbe dunque ragione, chi fa uno spettacolo apparentemente senza capo né coda satireggiando sul polpettone alieno che promana dallo schermo nelle più diverse forme o chi quelle diverse forme le trangugia quotidianamente facendosi venire dei rigurgiti di senso critico solo dinanzi ad un programma che, riflettendo implicitamente sullo specifico televisivo, mostra la fagocitazione della realtà da parte della televisione ed i “terzi effetti” che si innescano durante la sua digestione? L’operazione di Enrico Ghezzi e dei suoi collaboratori consentiva fra l’altro, tra le righe, di trattare ogni argomento da una prospettiva critica sì, ma anche sfuggente, come se gli assemblaggi al montaggio degli autori potessero in fondo non essere altro che il risultato, quasi in termini di “scrittura automatica” post-neo-dadaista, o di matrice Fluxus, di una veglia visionaria vissuta fissando una finestra su un’altro mondo, costretto a comprimersi, teletrasmesso e manipolato, dentro lo spazio onirico di una scatola magica. Una scatola magica non meno pericolosa antropologicamente di quella che compare in “Un chien andalou” di Bunuel e che indica una apertura alla storia degli oggetti come esteriorizzazione dell’inconscio, e potenzialmente non meno perversa di quel mondo “altro”, eppure da qualche parte esistente e spaventoso, che viene immesso nelle viscere del protagonista di “Videodrome”.

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