Il_7 su Piji
Questa settimana ad essere intervista è Pjij, un cantautore romano che negli ultimi mesi ha vinto di tutto.. 9 premi!
Razza di furbastro, come hai potuto vincere 9 diversi premi senza l’appoggio del Grande Saladino e senza sovvenzioni bulgare che ti consentissero di accordare gli strumenti con la tua ambizione sfrenata ed il tuo sopraffino gusto musicale?
Francamente ancora non so come ho fatto. Sento spesso voci di vincitori già decisi, di etichette che spingono i loro artisti per la vittoria, mentre la mia fortuna è che tutti i festival che ho vinto erano puliti. Solo vincendoli da solo, solitario nella notte un po’ come l’uomo tigre, puoi essere sicuro che lo siano…
Tant’è che mi sento pure di consigliarveli: dal Premio Augusto Daolio al Premio L’artista che non c’era (quello legato alla rivista L’isola che non c’era), dal Premio Lunezia al Botteghe d’autore, dal Contursi Festival al Premio Palco in piazza, dal Diacetum festival al Non sparate sul pianista fino al Sing your song. Su questi posso garantire trasparenza, se non altro perché li ho vinti io senza trucchi e senza inganni. Anzi, sto cercando di vincerne il più possibile ora così quando dovesse prendermi una casa discografica non avrà bisogno di farmene vincere qualcuno sottobanco per farmi fare curriculum!
I tuoi maestri hanno fatto in tempo ad insegnarti qualcosa prima che tu iniziassi a dettar legge anche a loro? E comunque qual è stato il “seminatore” che più ti tartassava coi suoi rimbrotti, prima di accorgersi che eri di un altro pianeta?
Così offendi i miei maestri! E poi ci sono maestri e maestri. Quelli veri, innanzitutto, per la chitarra Adriano Lanzi, Luca Chiaraluce e Roberto Nannetti, per la voce Raffaela Siniscalchi, Gianni Davoli, Fabrizia Barresi. Per quanto riguarda le mie canzoni, chi le ha influenzate di più tra questi è sicuramente Luca Chiaraluce. Il suo modo di insegnarmi le leggi dell’armonia e il modo di tradirle mi è rimasto dentro, impresso a fuoco nel tempo. Per quanto riguarda invece i maestri da cui ho pescato ascoltando sono tantissimi: Giorgio Gaber, Tom Jobim e Paolo Conte su tutti. Ma non dimenticherei per nessun motivo al mondo: Sergio Caputo (con cui ho avuto la fortuna di collaborare), Giovanni D’Anzi, Francesco De Gregori, Henri Salvador e tanti, tanti, tanti altri.
Sono mai sopraggiunte nel tuo studio di registrazione tre-quattro troupe televisive o altri agenti di disturbo per costringerti brutalmente a riconoscere che hai creato magicamente qualcosa che prima non esisteva neanche a livello di larva? E come stabiliresti il discrimine tra la tua ispirazione e la tradizione a cui ti richiami?
Questa è una domanda complessa. Credo che l’originalità non vada inseguita, così come per la tradizione. Viceversa penso che la tradizione vada ampiamente studiata e quello credo di averlo fatto, mentre l’originalità credo vada trovata nelle proprie interiora e in quello ci sto provando. Cerco di partire non tanto dalle costruzioni musicali e testuali dei grandi cantautori, ma dalle regole di armonia che ho studiato. Dal bagaglio di studio più che da quello di ascolto, mentre per quello che concerne i testi, cerco di non guardare da nessuna parte.
Che rapporto alterato pensi che ci possa essere tra l’improvvisazione da cui spesso nascono le sezioni strumentali e la forma canzone in cui si annidano i ritornelli?
A questo mi piace proprio, sì. Magari nei dischi è meno facile, ma nei live cerco sempre di inserire delle parti strumentali e/o, meglio, improvvisate. Credo che la canzone per come la penso, abbia la grande possibilità di unire improvvisazione e obbligati. Certo, rispetto al jazz c’è molta meno improvvisazione, ma rispetto a buona parte del pop, c’è la possibilità di mantenere una rispondenza diretta con lo stato d’animo della serata, con il pubblico con il posto. La possibilità, dunque, di rendere diverso ogni concerto.
Pensi che Giorgio Gaber avrebbe trovato da solo il suo punto G se gliel’avessero chiesto, o credi che assistere al tuo spettacolo l’avrebbe reso ancora più consapevole della sua influenza sulla coscienza individuale di chi riflette ironicamente sui teatrini politici?
Penso che Giorgio Gaber avesse trovato tutto, non solo il punto G. Dunque non ha alcun bisogno di me. Ad ogni modo, molti di noi gaberiani DOC si sono messi in testa di portare in giro la parola del loro dio. Personalmente, il mio essere profeta prende vita con uno spettacolo intitolato proprio Il punto G, in cui smezzo con l’attore Alessio Porretta il copione one-man-show di Gaber.
Qual’è la differenza in termini di giuria di qualità tra presentare Sanremo Jazz con disinvoltura facendo lo gnorri e organizzare la rassegna della rumba cilena con una straordinaria mobilitazione di uomini e mezzi, comprese due vallette che fingono di litigare?
Non ho nulla contro quella rassegna di cui parli, né tanto meno contro la rumba cilena. Anzi.
Il Festival internazionale di jazz di Sanremo ha una storia luminosa e il fatto di esserci passato (anche se non da musicista), mi ha fatto un immenso piacere. Presentare Gianni Basso è decisamente più bello di presentare Anna Tatangelo. Ma Sanremo ha tante facce e io le rispetto una ad una.
Come puoi massacrare le tue preziose meningi in un indefesso lavoro di sdoppiamento tra l’attività di musico ineffabile ed encomiabile e quella di giornalista o critico analista? Non ti sembra di stare in fondo sempre sull’Ottovolante, la giostra epilettica di cui parli nello swingatissimo pezzo omonimo? O è più come accanirsi in un ricamo sfumato e profumato, con la chiarezza dei dubbi, come dici a proposito delle parole nel brano “Come pensi di me”?
È esattamente come stare sull’epilettico Ottovolante. Hai proprio indovinato. Dormo tre-quattro ore a notte e vado a benzina e caffé. Ma per ora mi piace così. Stare sopra e sotto il palco rivela tanti segreti che non puoi scoprire stando solo sopra o solo sotto. È come fare un film e non sapere chi sia Woody Allen o Federico Fellini. Mi stresso ma va bene così. Non ho dubbi, né chiari, né oscuri.
Nel tuo saggio “La canzone jazzata” ripercorri il percorso italiano di coloro che restarono infatuati dai ritmi sincopati esportati dagli americani. Ti rendi conto che questa operazione culturale oggigiorno potrebbe infastidire sia coloro che sin dagli anni 40 temevano la commistione tra zulù e americanate, sia coloro che si stanno preparando all’esodo verso l’Ucraina per evitare Putin?
Sì, credo che in qualche modo sia una canzone impegnata. Ma a parte un vecchio squadrista che ho incontrato ad un concerto, non ha mai infastidito nessuno. Forse perché non l’hanno ascoltata, forse ascoltata e non capita, forse perché si nasconde dietro la bonaria figura del magico Natalino Otto (epurato ben prima di Biagi, Santoro e Luttazzi). Peccato, però, uno scandalo potrebbe essere utile alla mia carriera!
Per concludere: nel tuo curriculum vanti già numerose collaborazioni, ma nonostante la bonarietà à la page di clarinetti, piano e chitarre temperate, il jazzista secondo un consunto luogo comune porta un senso di solitudine cucito addosso come “Un vestito di canapa”, e talvolta lo porta “Fino alla fine del tango”. Tu come concili l’attività compositiva con la deglutizione di brandelli di somaro che talvolta la vita ci impone? Lasci fare “alle spire del vento e alla luna”? O ci penseranno Greg & Lillo, insieme a te e alla tua band all’Auditorium il 27 Aprile? Se sarete ancora più teatrali del solito, “suonerà” proprio come una celebrazione!
Non mi sento mai solo. Mai abbastanza. Amo la solitudine così come la compagnia e la compagnia che abbiamo messo sù per il concerto del 27 aprile all’Auditorium è delle migliori: oltre alla mia band, composta da Filippo Schininà, Matteo Ruberto, Luca Iaboni, Biagio Orlandi, Domenico Sanna e Matteo Locasciulli, band che adoro con tutto me stesso, ci saranno quei due lì, Lillo e Greg con Virginia Raffaele, tra i personaggi più eclettici ed originali del panorama italiano. Sono dei geni. E temo moltissimo eventuali loro prese per il culo ai miei danni. Credo sarà una bella festa per me e per tutti. Un punto di arrivo e di partenza. Un concerto languido e ironico contemporaneamente. Le canzoni possono tutto.
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