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JoyCut_ The Very Strange Tale Of Mr. Man

In una metropoli di grigio cemento, acciaio e fili elettrici scomposti, qualcuno ancora racconta la “Vera Strana Storia del Signor Uomo”: esseri anonimi, privi di valori sociali ed umanità, si aggirano in un ambiente di plastica fredda,guardando con aria inquisitoria l’unico uomo rimasto, che in un gioco paradossale viene tramutato in un alieno verde.
A partire da tale immagine si sviluppa il disco d’esordio dei JoyCut (PillowCase/Estragon), quasi un concept album dei tempi di Ziggy Stardust, una sorta di narrazione cupa e dolente ancorata al concetto di “declino dell’umano dominio”.
Il disco, “The Very Strange Tale Of Mr. Man”, in una costante trasversalità di richiami sonori, si contorce su un tappeto di modelli musicali di alto livello: dalla profondità concettuale dei Cure, passando per il rock acido dei Joy Division, arrivando infine alle alte vette della creatività compositiva di Roger Waters e dei Radiohead. Lo stile abbraccia più generi, ma senza mai smembrarsi o cadere nella forzata imitazione: new wave anglosassone della metà degli anni 80, psichedelia elettronica e rock, pop decadente, brit indie rock, sperimentazioni di respiro internazionale.

Mentre la City di plastica viene avvolta da una nube scura e inquietante, le undici tracce dell’album trasmettono ai suoi abitanti un senso di cupa malinconia: le sonorità striscianti e oscure abbracciano l’ascoltatore trascinandolo in un ipnotico stato di incoscienza, ossessionandolo e frantumandone la sensibilità, già di per sé traballante.

La capacità di ottundimento dei sensi di questo lavoro è sorprendente ma penso che in fin dei conti sia proprio questo l’effetto ricercato. Tutto tende a svuotare, de-umanizzare, portare ad una condizione di post-umanità insensibile, assolutamente blasè. Tutti i suoni sono concentrati, rimbombanti, ripiegati inesorabilmente sulla loro stessa natura. L’andamento è centripeto, la sensazione è quella di un’implosione ipnotica.

Se “Yokono” si pone sfacciatamente dalla parte delle esigenze radiofoniche e “Plastic City” rivela uno spiraglio di luce in mezzo a tutto questo grigiore, tutto il resto rimane ancorato alla sensazione di base. Passaggi elettrici su “Take Off” e “Again”, idea di sospensione con “Come on”, concatenazioni morbide e compatte per “Haiku”.

Struggente e apocalittico, ma ricco di spunti originali e di ibridazioni insospettabili. Grande cura per l’estetica della copertina, strutturata a due facce intercambiabili, una sui toni del blu e l’altra bianca-grigiastra.
Da ascoltare con cautela.

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