Il mio Tenco
[SPECIALE TENCO 2009]
Il mio Tenco?
Troppo difficile questa domanda. Voglio dire: troppo ampia sarebbe la risposta. In poche righe come si fa a riassumere? Temo di non farcela.
Potrei parlarvi di tutti i grandi artisti che ho incontrato, dei critici che ho tante volte letto in libri e giornali, potrei descrivervi l’Ariston, il palco più importante d’Italia per chi fa canzone perché ospite del Premio Tenco prima (dal ’74) e poi dal ‘77 fino ad oggi (con la sola eccezione del 1990) anche del Festival della Canzone Italiana (o Festivàl di Sanremo). Potrei dirvi che incute un certo timore, l’Ariston. Potrei raccontarvi passo passo le mie giornate, scandite da conferenze stampa, sound check, interviste, servizi fotografici, dibattiti, chiacchiere, momenti goliardici e alticci, musica, cibi e vini, il tutto di ottima qualità (“qualità” credo sia proprio la parola chiave di ogni cosa che riguardi questa rassegna).
Potrei raccontarvi che mi è capitato di autografare un foglio dove era stato attaccato con la colla il mio plettro appena usato.
Potrei parlarvi delle istituzioni del “Tenco”, sia i personaggi ormai storici che i luoghi, come l’Infermeria (dove si cura con il vino gli assetati, ma solo se resti simpatico al Capitan Barbieri) o il DopoTenco dove si improvvisano a orari più che notturni duetti improbabili e band fantasmagoriche.
Potrei essere più serio e spiegarvi per filo e per segno che una rassegna come questa è preziosa, non solo perché intitolata a uno degli esponenti più importanti della nostra canzone, ma perché è il luogo dove si ha la precisa sensazione del riassunto di ciò che di meglio abbiamo in Italia dal punto di vista “canzone”, dai big ai talenti nuovissimi (e preziosa per noi emergenti, dato che eravamo sullo stesso identico piano di Battiato o di Capossela, in quanto a spazio sul palco, accoglienza e attenzione). E a proposito di accoglienza sarebbe interessante, se solo fossi in grado, descrivervi l’abbraccio caloroso che ti arriva addosso quando senti l’applauso dell’Ariston, un abbraccio enorme, ma che sai bene esser fatto da mani preparate, attente, colte, che di cose belle ne hanno viste a centinaia e che quindi valgono forse ancora di più.
Potrei dirvi tantissime altre cose, piccoli dettagli più che significativi o tirare le somme in un quadro più generale della musica in Italia, ma mi fermo qui e chiudo con la cosa che per me, in quei tre giorni, valeva più di ogni altra: l’essere tra simili, annusarsi appena e sapere di essere su una stessa raffinatissima e popolare barca. E non parlo solo dei colleghi cantautori che, come me, hanno avuto il privilegio di sostare qualche minuto sul palco e sul dopopalco. Parlo delle persone, del direttivo, di De Angelis & Co., degli spettatori, dei fonici, degli accreditati. Parlo di Tutti, perché lì Tutti vedono la canzone come un fatto artistico e nulla più. Almeno per quei tre giorni la canzone è l’ottava, la nona, la decima arte forse, anzi la prima.
Questo è ciò che conta più di ogni altra cosa.
Ed essere parte integrante di questa grande festa è un sogno che si è ormai avverato.
Mi sono persino trovato a dormire nel mio camerino e a snobbare l’albergo nel pomeriggio prima dell’esibizione, con poche ore di sonno alle spalle e una gran voglia di essere fresco per la serata. E in camerino finisce che fa freddo, che sei scomodo, che ogni tanto passa qualcuno, insomma finisce che non dormi. Ma volevo stare lì, il più possibile.
È stato Piero Galletti dai microfoni di Notturno Italiano a ricordarmi, io le avevo dimenticate, le parole con cui ho salutato il pubblico appena salito sul palco. Le avevo dimenticate perché devono essermi uscite da sole, come quando un pensiero muto ti scappa e diventa una frase ad alta voce. Le parole erano due: “Che meraviglia!”…
Piji
(Foto di Valeria Napolitano)
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