Il ritratto di Dorian Gray, la perdizione in un quadro
[GRAFFIA(A)TI AD ARTE]
Presa dalla frenesia cinematografica prenatalizia opto per un film che mi riporti alle letture adolescenziali, Il ritratto di Dorian Gray. Conosco Dorian Gray come se fosse un caro amico e ritrovarlo con la faccia bella di Ben Barnes credo che farebbe piacere anche ad Oscar Wilde.
Il film con la regia di Oliver Parker, come il romanzo, è incentrato su un quadro e su un’artista che produce morte e perdizione. Il quadro diventa il legame tra il giovane Dorian e la sua anima. Mi chiedo se l’arte possa sempre avere questo tremendo effetto sulla vita di chi la produce, la sente e la vive. La storia ci insegna che il più delle volte è proprio così, ma rifletto ancora su Dorian Gray, o meglio, su chi ha creato veramente quella creatura bella e dannata, Oscar Wilde.
Nella prefazione del libro L’uomo che conobbe le carceri per la sua “perdizione” scrive dell’artista definendolo “il creatore di cose belle”. Dunque chi produce arte non può non conoscere le cose belle e per avvicinarsi a queste, riconoscerle, deve prima avere toccato il nero della sua anima? Per avere uno sguardo attento e capace deve per forza portarlo all’estremo delle sue potenzialità o è semplicemente un dono che diventa difficile da gestire?
Wilde ci sorprende ancora quando cancella l’artista dall’arte. Lui, così protagonista della sua vita come delle sue opere, dice: “Rivelare l’arte senza rivelare l’artista è il fine dell’arte”. Dunque, dell’opera, che noi vediamo, dovremmo dimenticare la mano che l’ha realizzata, dovremmo solo gioire dei colori, del suono e delle parole, dimenticando ogni legame con l’artista, che soffrirà tremendamente di questo distacco dalla sua creatura, come un genitore con il figlio. Ma a differenza di un genitore che tende e dimostrare nel figlio le sue capacità svelate o celate, “l’artista non deve dimostrare nulla”, non ha una scienza a cui rispondere o un teorema da confermare, deve solo rendere omaggio alla bellezza.
Penso ancora a quel quadro dipinto dal povero Basil Hallward, interpretato nell’ultima versione cinematografica da Ben Chaplin, che riflette solo le brutture di una Londra vittoriana che non riconosce la pietà neanche nella bellezza e che si perde in un rincorrere solo passioni vane. Quel quadro rispecchia, come dice sempre Wilde, nella prefazione, lo spettatore e non la vita.
In questa frase forse la spiegazione di come viviamo l’arte, di come possiamo usufruirne solo facendola diventare parte di noi stessi, rivendendoci e riconoscendoci il dolore e la morte, come la vita.
È quando lo scrittore, del giovane che vedrà la sua vita rinchiusa in un quadro, ci parla della critica d’arte, che ci sorprende di più.
Definisce, infatti, il critico: “colui che sa dare diversa forma o nuova sostanza alla sua impressione delle cose belle”. Immediatamente ci sentiamo in colpa se non abbiamo ritrovato del bello in quella che è produzione artistica, dunque? No, perché la bellezza deve essere riconosciuta. Il critico è come, o forse più, dello spettatore che deve riconoscersi e deve trovare nell’opera d’arte se stesso e la bellezza. Se non la ritrova le motivazioni sono due: o l’opera artistica ne è priva o il critico non è tra i prescelti, non è tra “coloro che scorgono significati belli nelle cose belle sono le persone colte, per loro c’è speranza, essi sono gli eletti. Per loro le cose significano solo bellezza.”
Quindi come gli artisti devono perdersi nella bellezza e crearne altra, così i critici la devono saper riconoscere. Questo riconoscimento è interiore e poi esteriore.
Così, la bellezza che è il cardine di tutto non può essere perdizione. E qui contestiamo la frase conclusiva della prefazione de Il ritratto di Dorian Gray: “Tutta l’arte è completamente inutile”.
Sì, sono d’accordo con la filosofia che lo scrittore dandy ha voluto esprimere in questa frase. Svicolando ogni legame sociale e utilitaristico dell’arte, ma se fosse così inutile non darebbe delle sensazioni così forti in chi la produce e in chi la recepisce. Non avrebbe il potere di cambiare lo stato d’animo e di condizionare il pensiero. L’arte ha questo potere.
L’inutilità dell’arte è legata alla sua bellezza che è assolutamente inutile quando si va a pagare una bolletta. Miei cari, arrendetevi! Se non stessimo bene nel guardarla non saremmo tutti nelle gallerie o nelle librerie e anche tra le pagine di questo magazine.
Rossana Calbi
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