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Porcupine Tree: nulla avviene per caso

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[MUSICA]

porcupine_tree_1ROMA- L’Atlantico Live stracolmo di gente, mi guardo intorno e scorgo persone di tutte le età. Tante generazioni con in comune la passione per i Porcupine Tree.
Alle 19,30, puntualissimi, si aprono i cancelli. Con enorme stupore riesco a posizionarmi nella balconata laterale da dove la visuale è totale e magnifica.

La band di supporto, i Demians, non si fanno aspettare. Alle 21 si posizionano sul palco in gran parte occupato dalla strumentazione dei Porcupine Tree e per circa tre quarti d’ora intrattengono, come possono, il pubblico trepidante.
I Demians sono una giovanissima band  francese rock progressive, molto apprezzati da Steven Wilson che già da qualche tempo li porta in giro con sè. Ma dei Porcupine hanno poco: risultano stucchevoli e poco in sintonia con il genere che cercano di proporre. Finita l’esibizione dei tre francesi l’attesa diventa snervante con tutto lo staff tecnico sul palco che monta e smonta strumentazioni ad una velocità assurda, ma con una precisione maniacale.
Dopo che l’assistente personale di Steven Wilson pulisce il pavimento del palco con un aspirapolvere e una voce fuori campo annuncia che, secondo precisa disposizione della band, è severamente vietato fare foto e girare video, pena l’esclusione dal locale, siamo finalmente tutti pronti per il live.

Entrano in fila indiana, Steven Wilson si presenta a piedi scalzi dando così una precisa giustificazione alla preventiva pulizia del pavimento.
Inizia lo show con qualche brano di assestamento per poi giungere quasi immediatamente al fulcro centrale dello spettacolo. Wilson, con il suo fare da ragazzino (sembra che per lui il tempo si sia fermato a 25 anni quando in realtà ne ha 42), annuncia che si prepareranno per eseguire “The porcupinetree_2Incident”, dall’ultimo album omonimo. Un lavoro diviso in due cd: il primo contenente una sola title track, appunto “The Incident”, un unico brano di 55 minuti diviso in quindici parti, mentre il secondo cd conta quattro titoli.
Durante quell’ora scopro la magia di una band dalle ambientazioni soffuse in cui i flash delle macchine fotografiche stonerebbero (sembra che in alcune città il pubblico sia solito ascoltare i loro live disteso per terra).
I cinque danno prova della loro maestria esecutiva, non sbagliano una nota, il suono è preciso e pulito risultando, inizialmente, quasi freddi ed eccessivamente metodici.
I 55 minuti, però, passano velocemente e i Porcupine ricostruiscono un ponte confidenziale con quel pubblico che, per loro stessa ammissione, negli anni gli ha dato più riscontro e apprezzamento.
Finito il brano la band esce e sullo schermo centrale inizia un countdown di dieci minuti. Allo scadere del conto alla rovescia i Porcupine Tree risalgono sul palco per un’altra ora di musica.

La seconda parte è quasi per intero dedicata ai brani storici, quelle melodie contenute negli album che li hanno consacrati degni eredi dei Pink Floyd.
Nessuno slancio d’improvvisazione, tutto rigorosamente secondo un copione meticolosamente scritto ed eseguito. La chitarra giusta al momento giusto, l’immagine perfettamente in sincrono con la musica e gli attacchi precisi quanto i cambi ritmici.
Steven Wilson e soci possiedono genio compositivo e capacità tecniche invidiabili e dal vivo sorprendono nota dopo nota. Non coinvolgono emotivamente, ma lasciano il pubblico incantato soprattutto quando ripercorrono le fasi salienti verso il loro ingresso a pieno titolo nell’olimpo del nuovo progressive rock britannico. I brani tratti da “In Absentia” o  “Lightbulb Sun” sono i classici della band, quelli di cui i fan delle prime file conoscono ogni singola sillaba o nota.
Un solo e lunghissimo bis dopo di che ringraziano il pubblico sazio e euforico per aver assistito al lungo e intenso show di una delle migliori band che la scena progressive ci ha regalato negli ultimi vent’anni, e si congedano stanchi e appagati.

Paola D’Angelo

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