CAMP. Signori, ho detto CAMP!
[LETTERATURA]
Marlene Dietrich, Andy Warhol, la Versailles del Re Sole, David Bowie, Carmelo Bene.Solo in apparenza sto citando dei nomi a caso. Quelli che potrebbero sembrare tutti degli intrusi da eliminare in un ipotetico insieme enigmistico, si rivelano strettamente collegati alla luce di una semplice e breve parola: Camp. Con questo termine anglosassone si designa un concetto difficile da “ingabbiare” in un’immagine ben delineata. Fabio Cleto, docente di Scienze dei linguaggi, della comunicazione e delle scienze culturali dell’Università di Bergamo, ha svolto il titanico compito di raccogliere in due volumi interventi e testimonianze sull’argomento. PopCamp edito dalla Marcos y Marcos è il primo tentativo in assoluto di presentare al pubblico italiano l’universo, o meglio, la nebulosa del Camp.
Ma insomma: cosa significa? Cos’è? Spiacente di dovervi deludere, ma il Camp non è una “cosa”, più che altro si avvicina ad una “modalità”. E’ un modo particolare di sentire e di guardare il mondo, concepito come un’eterna e ironica rappresentazione teatrale. Ebbene sì, la sensibilità Camp si ritrova anche nello spirito Barocco. E’ un modo eccessivo, teatrale, affettato e dandy, un gusto intellettuale per il travestimento sfarzoso. Visualizzate l’immagine della checca isterica, per essere irriverenti. Una sublimazione del kitsch, ma non solo.
Durante la presentazione del libro a Roma, diversi studiosi hanno tracciato una sorta di mappa per destreggiarsi in questo tortuoso cammino. Paola Di Cori (docente di Studi di Genere e Studi Culturali presso la Facoltà di Sociologia dell’Università di Urbino), introducendo l’argomento ha precisato che il dibattito critico intorno al Camp ha le sue radici nel mondo culturale anglosassone, dove un’ampia schiera di studiosi ha dedicato pagine e pagine alla definizione critica di questa categoria estetica. Prima tra tutte Susan Sontag, con il suo lavoro Notes on camp (1964) che diventerà il punto di partenza per ogni futura riflessione.
In Italia il silenzio a riguardo appare più che mai ingiustificato, laddove l’argomento viene dibattuto e insegnato nelle principali università americane. La nube di una soffocante cultura cattolica c’entra in tutto ciò? Eppure anche nella “nostra” religione si possono ritrovare espressioni della più raffinata cultura Camp: si pensi agli abiti coloratissimi che il papa sfoggia nelle cerimonie più solenni, alle sue scarpe di velluto color porpora. Interessante, poi, si dimostra l’allargamento che l’orizzonte Camp ha assunto nella cultura postmoderna, il Pop Camp, l’elitarismo di massa: una contraddizione in termini. Da iniziale tratto distintivo di una certa élite aristocratico-intellettuale, la cultura moderna ha fatto sì che il Camp divenisse una modalità d’espressione massificata. Continuando a spostare i confini, siamo invitati a ricercare il Camp non solo nella cultura occidentale, ma in quella Latinoamericana, nella Bollywood indiana e nel trash asiatico.
Nell’aiutarci a dare una definizione, laddove il termine lo permetta, Francesco Gnerre (docente di Teoria della Letteratura a Roma) ricorda che Oscar Wilde fu probabilmente il primo consapevole ideologo del Camp, che definisce un insieme di azioni e gesti dall’enfasi eccessiva propri della cultura decadente del tardo Ottocento. Un misto di ironia, estetismo ed effeminatezza che chiamano direttamente in causa la sfera dell’omosessualità, senza però mai rinchiudersi solo in essa. Sicuramente il gusto di vedere la vita come una performance ha molto a che fare con il mondo gay.
In Italia, sebbene non si sia affrontato il tema dal punto di vista critico, la produzione culturale è stata ed è tuttora prodiga di esempi del genere. Tra tutti viene ricordato il grande Paolo Poli che conobbe l’onore della censura per la sua interpretazione femminile nella pièce Rita da Cascia . Abbassando il livello al pop di massa, possiamo pensare a Platinette.
L’intervento del professor Giuseppe Merlini, studioso di Letteratura francese, è una proposta: si può ritrovare la sensibilità camp nell’immensa Recherche di Proust? Nella figura di Albertine se ne scopre l’essenza stessa, per la sua prorompente forza di rottura delle categorie sociali.
Infine Anna Camàiti (studiosa di filosofia, teoria delle identità e visual studies) porta l’attenzione sulla caratteristica visuale del fenomeno. Il Camp è principalmente un pensiero visuale e non esiste se non in questa sfera sensoriale. Attenzione: visuale e non visivo. Con quest’ultimo, infatti, designiamo ciò che appare; con l’altro, invece, ciò che potrebbe apparire…
In quanto “femminile interpretato”, al Camp si addice la definizione di ambiguità di un visuale sempre diverso da ciò che non è.
Sul filone del visuale, del visivo e dello sguardo, conclude l’incontro l’autore, Fabio Cleto. Lo sguardo, afferma, è la cifra del Camp, e infatti la copertina del libro rappresenta un occhio, truccato come un fiore. Uno sguardo, quello preso in questione, che presuppone non un unico spettatore, bensì una collettività per la natura teatrale che lo contraddistingue. Uno sguardo che non può essere ingenuo, perché non coglierebbe nulla, ma che è come quello suggerito nell’immagine: sempre truccato, sempre precostituito. Questo signori è il Camp.
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