Ultima notte di Pace
[TEATRO]
Nella Sala Grande del Teatro dell’Orologio di Roma si sono aggirate – dal 19 marzo al 10 aprile – le ombre inquiete di sei combattenti dispersi nelle maglie della storia, riuniti ne L’ultima notte di Pace per raccontare al pubblico i propri destini.
Lo spettacolo – scritto e diretto da Francesca Zanni – è il risultato assolutamente straordinario della collaborazione tra la Compagnia Teatro IT e La Casa dei Racconti che si fregia del patrocinio di Amnesty International Italia per sancire l’altissimo valore culturale e civile del progetto.
La scenografia di Cristiano Cascelli si propone come un trittico speculare in cui lo stesso luogo viene ripetuto a distanza di secoli registrando, attraverso i suoi elementi ricorrenti, il segno inequivocabile del rovinoso trascorrere del tempo. I tre quadri sono animati contemporaneamente dalla presenza dei soldati sopravvissuti a battaglie memorabili: lo scontro di Lepanto del 1571, la campagna d’Italia napoleonica del 1797 e la disfatta di caporetto del 1917.
Pur coesistendo nello stesso spazio, i tre gruppi sono isolati nelle ere a cui appartengono e non entrano in contatto tra loro se non attraverso oggetti che – sopravvivendo al trascorrere degli anni – si tramandano da una storia all’altra, tessendo un affascinante filo conduttore tra le scene.
Le diverse vicende si compenetrano in un toccante bassorilievo di dialoghi e silenzi delineando con delicatezza la composita tavolozza di sentimenti che attanagliano l’uomo di fronte alla guerra: nostalgia, rabbia, speranza, delusione. ma soprattutto un’universale ed inconsolabile paura.
Gli sguardi e le parole dei protagonisti si attraversano come se non percepissero la presenza degli altri eppure i singoli frammenti sembrano rispondersi tra loro in una sequenza magnetica di dissolvenze incrociate. Lo splendido gioco orchestrato dalla regia, infatti, riesce a dominare lo sguardo dello spettatore come fosse una macchina da presa, focalizzandone l’attenzione con talmente tanta urgenza da impedirgli qualunque divagazione. Gli stessi cambi di scena, sebbene effettuati a vista, riescono quindi ad imporsi come delle vere e proprie “apparizioni” che intensificano il suggestivo potere medianico del palcoscenico.
La rappresentazione avanza con ritmo incalzante senza concedere pause né allo spettatore né agli interpreti che, con stupefacente concentrazione, mantengono impeccabilmente i propri ruoli ed i propri impegnativi monologhi anche quando vengono relegati momentaneamente in secondo piano. La magnifica prova degli attori – Domenico Fortunato, Marco Guadagno, Arcangelo Iannace, Daniele Natali, Edoardo Rossi e Simone Tessa – conferisce al testo, già molto incisivo, una carica emotiva dirompente, rendendo ogni personaggio vivo e reale anche grazie all’equilibrato uso del dialetto.
La commovente semplicità vernacolare, infatti, contribuisce in maniera determinante alla costruzione di uno spettacolo in cui – tra riso e pianto – trionfa l’uomo e la sua essenza, sopra ogni machiavellica ragione politica o religiosa che tenta di rendere giustizia ad una violenza umanamente inaccettabile.
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