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F. Passarella: un radioso RetroPhuture davanti a noi?

art L
[ARTI VISIVE]

art LROMA- In un mondo che si attarda sull’ideologia del postmoderno proponendoci assaggi e spigolature, ma spesso perdendo il senso complessivo di una progettualità che ci porti fuori dalle secche, entrare al numero 40 di Viia di Monserrato, a Roma, dov’è la The Gallery Apart, e prendere contatto con le visioni di RetroPhuture, l’ultima mostra di Fabrizio Passarella significa offrirsi un’immersione in un progetto magari solo artistico, ammettiamolo, ma che del post-moderno si pone come summa spingendo anche per un suo superamento, sull’onda di quel digitale che forse i giovani a volte utilizzano con poca consapevolezza storica.

Passarella in questo suo ultimo progetto si presenta nella veste triplice di artista visuale ma anche di compositore musicale e poeta affrontando cioè in una prospettiva di scambio intermediale le tre forme di espressione artistica che più lo hanno da sempre interessato, ma di sicuro entrando nella galleria non si può non venire risucchiati da una di quelle immagini 80 x 80 cm, realizzate in stampa fotografica su alluminio, che l’artista ci presenta questa volta al posto delle sue elaborate immagini squisitamente pittoriche. In “Art”, del 2012, sembra che il salone raffigurato nel famoso collage dell’artista proto-pop inglese Richard Hamilton “Cos’è che rende le case d’oggi così electronic music engineering Ldiverse, così attraenti?” (1956)“ si sia ibridato con il collage di Raoul Hausmann “Tatlin in casa” (1920), per produrre un ambiente casalingo votato alla sperimentazione del rap-porto uomo/donna-macchina in cui le concezioni futurologiche disseminate lungo il Novecento si puntellano l’una con l’altra in una euforica compresenza funzionale: delle donne, una anni ’40 con la testa robotica dai tratti antropomorfi stilizzati afro-picassiani, l’altra anni ’50 seduta su una sorta di lavatrice e reggente in grembo un modellino di aereo bimotore grande come lei, si godono un relax ultramodernista ascoltando musica da un magnetofono collegato a cuffie speciali, mentre una terza, in abito nero da parata futurista e circondata da un gioco di molle concentriche che forse è un campo di forza circolare. Frattanto, uomini o col cappotto nero di pelle da spia nazista o in tuta da operaio sovietico ripreso da Dziga Vertov, sono concentrati nella messa a punto di dispositivi colossali atti alla regolazione delle fantasie di dominio dell’uomo sul suo destino, o meglio, alla loro sintonizzazione fine sulle possibilità tecnologiche disponibili in un presente im-manente e tronfio di fiducia illimitata nella scienza, alludendo perfino all’uso artistico dei tubi al neon, così come viene proposto da ipotetiche pubblicità anni ’50, pop-concettual-retrofuturibili. Come si intuisce da que-sta avventurosa descrizione, Passarella già nella sua ricca e ben documentata produzione pittorica è uno specialista dei campionamenti, capace di attingere anche da repertori derivati dall’Oriente, con cui ha avuto nell’arco della sua carriera, diversi momenti di contatto, ma ci pare di poter dire che le sue radici occidentali non sono minimamente in discussione. Infatti, in questo ambizioso lavoro quantomai multimediale, messi da parte i pennelli, si è de-dicato ad una densa reinterpretazione di una miriade di immagini del futuribile che fu, accompagnate da irre-sistibili riferimenti alla cultura musicale del nostro tempo, ed in particolar modo allo sperimentalismo di Terry Riley, La Monte Young e Steve Reich, più un tocco di Prog Rock, la decadente trilogia berlinese di Bowie realizzata in collaborazione con Brian Eno e Robert Fripp, i suoni ambient dello stesso Eno solista, il primo pop “meccanico” di Gary Numan, il Krautrock dei Kraftwerk e dei Tangerine Dream (tra gli altri) e le loro ricadute massificate degli anni ’80, compromesse con il pop e la dance – e par-liamo del Techno Pop – e certi strati del New Romantic occupati da bands come Joy Division e Ultravox, fino alla deriva sfarinata degli effimeri gruppi Synthpop scovati su Internet.

L’output musicale del progetto, caratterizzato, malgrado la “maldestra verginità tecnica”, da una certa com-plessità, è stato elaborato in fondo in casa, una casa – come dicevamo prima – divenuta un laboratorio di alchimìe estetiche, in questo caso studio di registrazione oltre che atelier, con un approccio tecnologico-arti-gianale fondato su conoscenze autosviluppate; un approccio non condizionato, molto liberatorio proprio per la indipendenza, l’autodeterminazione creativa che un non-musicista come Passarella (e come lo  stesso Brian Eno si definiva) può godere pensando di essere semplicemente un artista che usa i nuovi software per la manipolazione dei suoni come un ulteriore tavolozza su cui realizzare composizioni scaturite “come in una scrittura automatica surrealista”. D’altronde, che nel futuro prossimo ognuno sarebbe stato in grado di fabbri-care la propria musica era uno sviluppo che Passarella già presentiva all’inizio degli anni ’80 (“Ci sono voluti trent’anni, ma eccoci qua!”). Il prodotto globale, invece, di questa miscellanea satura di immagini, testi e suo-ni impregnati di modernismo eroico, esaltazione retorica della macchina e del superuomo, o di post-moder-nismo post-industriale fantascientifico, è un kit portatile, un condensato trasportabile e trapiantabile in qua-lunque contesto, rappresentato da un box, un “multiplo d’artista”, esemplifi-cazione tarda ma ideale dell’”o-pera d’arte nell’età della sua riproducibilità tecnica” di benjaminiana memoria, consistente in un insieme di oggetti che racchiudono l’intero spettro creativo presente in mostra e non, vale a dire il CD con 24 brani musicali composti dall’artista, un librettoimage005 di 24 poesie, e le 24 immagini corrispondenti ai brani, delle quali solo alcune sono visibili in galleria. Completa il box, col suo spessore riassuntivo, un DVD con il video, di cui parleremo dopo. Il tutto al prezzo contenuto di 150 euro tondi tondi. Prima di tornare alle opere, occorre insistere sullo spirito dell’operazione, che, malgrado l’ampio uso di materiale iconografico e di propaganda della Germania e della Russia degli anni ’30, non rivela alcun intento ideologico, dal momento che lartista riflette con evidente ironia sulle coincidenze estetiche che accomunano tutti i regimi totalitari, il gigantismo magniloquente armato di classicismo imperioso come nei monumenti dello Stadio dei Marmi, o dei Kolkosiani, o delle raffinatissime pellicole della regista di regime Leni Riefenstahl, simboli di una spinta rea-zionaria e modernista insieme, verso un futuro che si supponeva splendente. Lo stesso Passarella, da sem-pre affascinato dagli ossimori culturali, mostra questi linguaggi nel loro intrecciarsi con l’eredità romantica europea, con il decadentismo che poi promana dalla “musica delle macchine”, che unisce nostalgia, sirene di guerra, ritmi industriali, effetti misteriosi e melodie magari elementari ma toccanti, esaltazione di un eroismo post-umano brillantemente sintetizzato da Bowie nel brano che “è stato l’inno della fin de siecle scorsa”, uniti alle ansie per la crisi dell’industrialismo piuttosto che per le catastrofi tipo Chernobyl. Anche il fascino delle rovine è infatti presente, sia nel senso di desolati paesaggi post-bellici sia nel senso ultimativo del trapasso della stessa era postmoderna, un declino forse ciclico ma la cui manifestazione non solo economica è sotto gli occhi di tutti. Fascinazione e repulsione verso la scienza, “monumentalismo minimale”, “bricolage tecnologico”, ancora ossimori affascinanti ricavati dalla rivisitazione di un vastissimo repertorio di immagini raccolto in anni di paziente e fervente collezionismo e dalla riflessione sociologico-poetica espres-sa in testi dalla metrica stringatissima ma visionari almeno quanto i modelli derivati dal rock elettronico. Il senso ultimo di tutto questo gioco di rimandi non è nella ricerca dell’effetto nostàlghia o nella strizzata d’occhio all’archeologia tecnologica, ma nella riflessione sul tramonto/crollo/decadenza/fine – in una parola, Untergang – di una fase storica caratterizzata appunto dallo stretto connubio tra gli elementi macro-culturali sopra elencati. Il progetto di Passarella mantiene la potenza di questa commistione ma si accresce nella lucida e spietata evidenza con cui fa risaltare lo stallo ideologico che ha portato alla presente deriva econo-micista; devono svilupparsi nuove categorie del pensiero, a partire dalla Storia degli uomini e delle idee a cui ci si deve ispirare ma criticamente per poter tratteggiare un futuro possibilmente migliore.

In “Electronic Music Engineering”” una distinta figura maschile, che dovrebbe essere Michael Rennie, attore in “The day the Earth stood still” (”Ultimatum alla Terra), del 1951, considerato da Passarella l’epitome dello “spirito retrofuturistico dello scienziato manipolatore di energia”, si trova al centro di una stanza divisa in quadranti virtuali, forse apribile a comando su spazi esterni carichi di misteriose implicazioni mesmeriche, ed in questo spazio composito sono addensati come sulla plancia di comando di un’astronave o di una centra-lina di controllo, tutti i dispositivi di una strumentazione tecnotronica imperscrutabile, con sovrapposizioni fluttuanti di simboli di carichi elettro-fisici, e la visualizzazione ologrammatica di un cervello stilizzato apparso in virtù dei comandi azionati dall’uomo pigiando con sguardo carico di pietas o semplice perplessità su un bottone di un pannello accanto al quale compaiono diversi tipi e modelli di tastiere con pannelli per la rimo-dulazione dei pittogrammi, che a loro volta scorrono in fila sullo schermo, mentre umori trasparenti in forma di raggi simili a quelli dei Tesla coils che serpeggiano come umori ectoplasmatici, suscitati elettronicamente anche da microfoni anni ’40.
Nell’ottimo video, invece, vera sintesi di tutto il progetto, riassuntiva rispetto a tutte le immagini statiche delle stampe su alluminio, ritroviamo appunto elementi già presenti nei quadri, ma animati grazie ad applicazioni video al computer dallo stesso artista e inseriti in “spezzoni storici scaricati dalla rete e filtrati: tra i tanti, docuTHEREMIN Lmentari sulle Guardie Rosse maoiste, sui Pimpf hitleriani, cori e danze dell’Armata Rossa, Carmen Miranda, Rodolfo Valentino, ballerini di tango, un raro video sul “Monumento alla Terza Internazionale” di Tatlin, la “Lichtskhatedrale” dal “Triumph des Willens” di Leni Riefenstahl, sulle utopie urbanistiche della Russia stalinista e sul modellino della nuova Berlino di Speer” (citiamo dalla nutrita e gustosissima fanzine creata e distribuita gratuitamente dall’artista a beneficio dei visitatori). La donna fotografata da Rodcenko gri-da graficamente un “Elektronik!” e “Musik!”, le risponde un pilota alle sue spalle, e infatti appaiono anche i padri della musica elettronica, del minimalismo, tra cui Robert Moog, Gary Numan, Clara Rockmore (la più grande virtuosa del theremin), tutti ampiamente citati nella parte musicale, ma anche Juri Gagarin, l’Orson Welles de “Il terzo uomo” con una Schneekugel al posto della pistola, per non parlare delle dive del cinema Rita Heyworth e Ava Gardner e le loro colleghe tedesche ed europee catturate insieme ad altri in una danza suprematista, costruttivista, intorno alle epifanie geometriche dei vari monumenti e palazzi stalinisti e hitle-riani e americani misti a manifesti di propaganda e illustrazioni di riviste vintage. Il tutto in un montaggio non da videoarte, o almeno non quello lentissimo mirato all’analisi del rapporto tra tempo reale e filmico di un Bill Viola, ma quello tipico dei veloci videoclip synthpop, perfetto per una coreografia a base di movimenti a scatto, espressione della poetica robotica degli anni ’80 (con la radice, “Metropolis”, non a caso attualizzata nell’’84 da Giorgio Moroder in versione rock) con un testo che significativamente recita: “L’arte è un vecchio giocattolo/ ingom-brante spazzatura da museo/ Noi costruiamo in solitudine/ il battito della moltitudine/ Noi costruiamo sculture di suono/ pitture immateriali/ minimalismi monumentali/ concettualismi portatili/ Visionari disintossicanti artistici/ che si possono portare ovunque/ in un piccolo involucro musicale/ per stimolare il cervello/ Noi siamo Ingegneri (di musica) elettronici/ Costruttivisti romantici/ Noi siamo designer (di musica) elettronici/ Ossimorici Retrofuturisti”.
Una nota finale meritano infatti gli strali polemici che l’autore indirizza, nella fanzine, contro l’obsoleto corto-circuito tra l’arte come snobistico status-symbol con cui la ricca borghesia si diverte a scandalizzare il proletariato, rovesciando i ruoli fissati dall’avanguardia, e “il tritacarne di anime e cervelli di questo tardo capitalismo putrefatto”. Passarella auspica che un nuovo romanticismo disperato, dalla stessa carica eversiva e cinica del punk intervenga a riscattare i giovani artisti dall’apatia, dalla volgarità allucinante di certi ingranaggi del Sistema simili a talent-show negando valore all’estenuata ondata neo-dadaista e alla vague (post)warholiana, che da tempo mostrano la corda. Provocazione estrema rivolta sia contro i vecchi regimi, sia contro provocazioni precedenti, interpretate impietosamente come la traccia maleodorante di una “maniera” messa a nudo nella sua ipocrisia espressiva. Parole scritte per spingere a voltar pagina e mettersi davanti un radioso RetroPhuture!

il7 – Marco Settembre

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