L’infinita fine del nostro futuro
ROMA- Sotto controllo. Sotto assedio mentale permanente (l’attore nella sua parte, sorvegliato speciale da quello che è il copione; il grande fratello è anche lo sceneggiatore-regista che indirizza il senso dello spettacolo). Infinito Futuro, lo spettacolo che Antonio Sanna ha messo in scena nella sala grande del Teatro Orologio dal 22 novembre al 18 dicembre, ha le sembianze di uno psicodramma in cui la paranoia travolge ogni quieto vivere.
La parola si scontra con i suoi simili ed ogni progresso è sterminato e indefinibile, la comunicazione si perde a forza di creare recinti di com-prensione. La funzione fatica del linguaggio è svuotata d’ogni costruttività. Non si possono avere idee fisse, ma piuttosto evacuare dal regno della logica assecondando le leggi del mercato.
È la notte hegeliana, in cui tutte le vacche sono nere. È il fantasma post-moderno dell’assenza d’una legittimazione univoca del proprio agire e pensare, nello sbandamento che provoca in noi la mancanza di distinzione tra gli oggetti e le loro rappresentazioni, tra la realtà e il discorso mediato e camuffato che di essa ne fanno gli esecutori della voce del padrone, il grande occhio possessore dell’informazione. Lo statuto di sorvegliati è sempre più tangibile (tassati dal presente, inseguiti dal quotidiano sopravvivere, a corto di redini e di passato).
Un eccesso di rappresentazione (ci può forse salvare dal baratro del perdere di vista anche il nostro ruolo già ampiamente eterodiretto e disossato da avanguardie e retroguardie) così forse, visto che di tracce di identità non ne abbiamo più, risulta parzialmente più confortevole e consolatorio (consolante) metterci in scena e in maschera, così come pensiamo di essere (rappresentati) e non come siamo, tra persuasori non più occulti e non tralasciando che la contropartita ancora più agghiacciante ed efficace al sorvegliare e punire è quel divertirci da morire (di altrettanto profetica matrice huxleyiana e postmaniana) di cui siamo non meno succubi.
Scoloriti, saturati, spenti e sulla via dell’automazione depersonalizzante, nella nostalgia d’una impossibile rivolta, in un tempo in cui (com’è presumile che realmente accada) non verrà più così naturale trovare il nesso tra la matita e il foglio di carta o tra le lame di un rasoio e la sua attuale funzione, le figure che Sanna ha tratteggiato per il suo Infinito Futuro, ispirandosi al celeberrimo e famigerato 1984 di George Orwell, sono di un marrone scarico di energie. I sette attori, come ci suggeriscono le note di regia, “sono come i casuali officianti di un rito doloroso e grottesco, i rappresentanti del malessere inconsapevole dell’umanità”.
Il grande fratello oggi viaggia sul net, conosce le nostre mosse internaute, evolve (e non coinvolge) il nostro linguaggio, ci consegna nuove icone, Eppure siamo a corto di credibilità, la manipolazione ha preso il sopravvento: posso dire tutto e il contrario di tutto nel mare magnum dell’informazione deformata (altro gioco caro al potere, quello del con-fondere i piani e moltiplicare fittiziamente le nostre possibilità di sapere). Ben oltre il bipensiero immaginato da Orwell, dove c’è chi viene incaricato di “correggere” i libri e di modificare la storia scritta, qui vige la sottigliezza dell’indistinzione, dove anche i buoni e i giusti sono ambigui.
Consumare come onnivori mai sazi eppure senza appetito, regolati, messi in regola. L’intensità dell’amore si scontra con l’ideologia usa e getta del consumo (anche dei corpi), in una società – citando Massimo Fini – vittima dell’abbondanza, dell’ossessione della crescita imperitura. Un modello di sviluppo paranoico, quello della volontà inarrestabile alla crescita, frutto acerbo e marco d’un generale impoverimento mentale, di cui l’incubo recessione di questi giorni non è che una delle assurde tappe.
Contro la fratellanza, è bene farci restare divisi, cuffie nelle orecchie e impiegati dipendenti meccanismi senza voce in capitolo. si agisce sotto comando, nel ritornello del potere che tutto consente (dichiara di consentire). Anche il dissenso è messo nell’agenda di chi governa, ma un dissenso già ben regolato, a tempo determinato, solo una delle possibili dinamiche del quotidiano organizzate e giostrate dal sistema centrale.
Nella nostalgia dei “grandi discorsi”, l’amore forse per primo, viviamo un tempo senza memoria, senza radici (e ovviamente di conseguenza senza alcuna coscienza storico-critica), in un infinito futuro nel quale oltre la de-finizione c’è il nulla e la parola si declina soggettivamente, perdendo il suo valore di connettore sociale. Nell’irrealtà di cui trabocca il nostro agire (la nostra cara società dello spettacolo), oggi che la paura più grande resta comunque quella del non poter consumare e produrre, e sembra si sia capaci di reperire energie solo davanti ad una partita di calcio, solo nell’applauso anestetizzato all’idolo di turno.
In questo dignitoso quanto disperato masochismo del rappresentare la nostra stessa condizione (punto di partenza o clamoroso punto di arrivo della nostra lotta?), anche il complottare contro il sistema fa parte del sistema stesso (così come forse il non rassegnarsi alla crisi del teatro fa parte del teatro stesso). Basta la forza della parola – asciutta e centrata – a evocarci in massima parte questo scenario. Ben più forse dell’eccesso di teatralità e di foga cercato e trovato in alcuni frammenti (il rifugio amoroso, la tortura finale).
Resta da capire se possa essere necessario (o sufficiente) mettere in scena lo stato delle cose, perpetrando il rito stanco della nostra caduta nel ruolo in un teatro rigorosamente di prosa, o se una volta lì sulla ribalta, occupando uno spazio e un tempo per una volta forse non troppo sorvegliato (se non dagli spettatori), sia il caso di operare uno scarto tale da tentare di divincolarci da quella gabbia più o meno invisibile nella quale siamo incastrati nostro malgrado.
Salvatore Insana
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