J. London, La figlia delle nevi
Non di rado il primo romanzo di un autore resta in sordina quando la fama arriva invece con opere più mature. Non ha fatto eccezione La figlia delle nevi che il London di Zanna Bianca e Il richiamo della foresta scrisse all’inizio del secolo scorso.
Ed era già chiaro che costui sarebbe diventato l’Omero dell’epopea a stelle e strisce: una storia d’amore niente affatto sdolcinata sullo sfondo della conquista delle dorate miniere dell’Alaska. Lei è Frona Welse, figlia dell’uomo più ricco dello Yukon, inviata sul continente per studiare a Stanford e che a 20 anni torna finalmente a casa. Il ricordo delle amate lande fredde e selvagge incontra nei primi capitoli umidi di emozione un presente poco sorridente, in cui gli indiani una volta amici ora guardano il viso pallido con diffidenza tra i fumi dell’alcool e il vizio del gioco, forme del progresso importato dal civilizzatore. La ragazza è un perfetto esempio del pioniere americano saldo nelle fede per la pagnotta e un tetto sicuro, tramandatale dal padre Jacob, un uomo venerato perché proprietario di un impero economico costruito dal nulla in mezzo alle nevi.
Il carattere schietto e fuori da ogni convenzione fa innamorare due giovani uomini, Vance Corliss, ingegnere minerario appena sbarcato, sincero e con occhi aperti al futuro, e un certo Gregory, giornalista che ammalia le donne con la storia di una rocambolesca avventura in Siberia. Il cuore di lei non è molle come quello delle coetanee cresciute ridacchiando nei salotti e così certe liaison sembrano essere l’ultimo dei suoi pensieri, impegnata com’è nel disquisire di filosofia pragmatica e arte, quando qualche animo raffinato capita tra i ricconi bifolchi del Klondike. Così il primo spasimante viene gentilmente respinto con una promessa di eterna amicizia, mentre l’altro riuscirà nell’impresa solo dopo un paziente corteggiamento fatto di innumerevoli scambi di idee, grande passione di Frona.
I capitoli scorrono condotti sapientemente dalla penna di London, il quale si afferma un maestro nel saper indurre il lettore a credere in un matrimonio finale mentre parallelamente traccia la linea che alla fine si incrocerà con la trama per farle lo sgambetto. Insomma, il matrimonio con il giornalista non è scontato e l’amicizia giurata a Vance potrà avere un nuovo nome.
Il piacere di questa lettura sta nell’impianto tradizionale della storia e nell’onniscienza del suo autore al quale i palati letterari di noi post-moderni contemporanei non sono più abituati. Epiche descrizioni paesaggistiche, lente e accurate nel minimo filo d’erba bagnato che riflettono l’animo del personaggio che guarda, appartengono ad un modus scribendi estraneo al presente forse, ma che danno un dolce senso di abbandono alla storia. Ci si sente completamente nelle mani dell’autore, non più spersi in frammenti di visioni e dialoghi che hanno preso troppo l’odore della pellicola più che dell’inchiostro (si scrive al Pc ormai, ma intendiamoci…).
Parlare di generi è oramai vetusto, proliferano adesso i cosiddetti attraversamenti, le contaminazioni, la multimedialità artistica. Invece la casa editrice Iacobelli ha scelto di riproporre un testo che gentilmente ci ricorda cosa sia il genere letterario.
Jack London, La figlia delle nevi, Iacobelli, pag. 263, € 14
Francesca Paolini
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