Un’artista senza filtro: Tracey Emin
[ARTI VISIVE]
LONDRA- La biografia di Tracey Emin rappresenta, per antonomasia, l’ascesa nell’olimpo del mondo dell’arte di una giovane artista del nostro tempo. Ma quel che è più interessante, e che rende la Emin un’artista di punta del movimento chiamato YBA – Young British Artist – è che lei , anche dopo la caduta del mito della Cool Britannia, è rimasta ancora al vertice.
E’ salita nel gotha dell’arte contemporanea attorno agli inizi degli anni ’90 ed è stata cresimata nel periodo d’oro del blairismo, dei Blur e della nuova Swinging London, in cui noi continentali fagocitavamo tutto ciò che veniva da Londra. Seppur questo fanatismo british sia passato di moda, lei resiste sotto la luce dei riflettori: ma perché? Ha talento, è originale, sa usare il suo bel corpo artisticamente, sa far scalpore mediatico e piace negli ambienti che contano.
Nella mostra intitolata Love Is What You Want, dedicatale alla Hayward Gallery, nel cuore della South Bank, si ha la confortante conferma di un meritato trionfo. Quello della Emin è un trionfo che deriva da un impudico senso di trasparenza, a tratti egocentrico e scandalistico, ma prevalentemente generoso e toccante, che non vuole mascherare, che non lascia spazio all’artificio. Tracey Emin espone sé. Espone se stessa dall’inizio alla fine, non c’è spazio per altro. Tutto quello che ha avuto un senso nella sua vita, lo spettatore se lo trova sbattuto in faccia.
Sin dalla prima sala l’impatto è di una grandissima vitalità, con quello che è diventato un po’ il simbolo della sua arte: le blankets, ovvero coperte. Enormi teli multicolore, in cui sono cucite a mano parole, frasi, nomi, riferimenti, date, insulti, dialoghi e tutto quello che ha avuto significato per lei nelle varie fasi cruciali della sua esistenza. La prima opera rappresenta il suo personale curriculum vitae: una sintesi della sua infanzia e della sua adolescenza difficile a Margate, dove il padre era proprietario dell’International Hotel, poi caduto in rovina, e dei successivi tempi duri che la famiglia ha dovuto affrontare. Ci sono esposte le sue riflessioni intime, come ci testimonia una delle blankets più semplici, ma allo stesso tempo profondamente emozionante. Si tratta di un pensiero rivolto ad una persona amata, che si riassume in una frase: “Perché dovrei proteggermi da te, quando tu dovresti essere colui che mi protegge”, altre riflessioni sono frutto di momenti di disillusione, legato al tema ricorrente della maternità: “Non mi aspetto di diventare madre, ma mi aspetto di morire sola”. Il tutto è contornato da un contesto di eventi paralleli e ignoti allo spettatore che però si diverte a fantasticare la chiusura del cerchio di significati.
Nelle sale successive sono raccolti le opere espresse con gli altri linguaggi usati dall’artista. Molto famosi sono infatti le sue poesie al neon, aforismi più o meno ad effetto, che sono sintesi di stati d’animo personali: in cui domina indiscusso un meraviglioso “I Can Feel You Smile” . Vi è poi la sezione video-arte, dove la mostra raggiunge il suo apice di emotività. Le opere maggiormente degne di nota, sono percorsi personali assolutamente vividi anche se riferiti ad eventi passati, in cui riaffiorano avvenimenti legati all’adolescenza, alla scoperta della sessualità e alle sue debolezze. Dovendo ne sceglierne uno, sicuramente il racconto del suo aborto, che ripercorre come in un documentario i luoghi in cui fisicamente si trovava al momento dei fatti e il racconto diretto e senza censure a sei anni di distanza da quell’evento, è di certo l’opera che ha lasciato il maggior impatto emotivo. Nell’ultima sala vi sono un infinità di opere che utilizzano le più diverse espressioni artistiche: dal disegno, alla pittura, alla fotografia, all’assemblaggio di souvenier. In tutte ci un unico comune denominatore: lei . Massiccio è l’uso che fa del suo corpo: come narrazione, come provocazione,ma anche come mezzo per simboleggiare la femminilità, i cui richiami sovrabbondano nella mostra essendo presenti in varie installazioni. Vi sono tantissime lettere personali, soprattutto dell’amatissimo padre e della nonna che vengono assorbiti di riflesso nella mostra e ne diventano co-protagonisti.
Questo è il mondo di Tracey Emin: può piacere o meno, ma di certo è un incontro che vale la pena di fare.
Claudio Aleotti
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