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En atendant: Rosas

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[DANZA]

rosas1ROMA- Classe 1960 Anne Teresa De Keersmaeker, dopo essersi formata da danzatrice al Mudra di Bejart e dopo essere entrata in contatto con l’ambiente americano della post modern dance dei primi anni 80, ha fondato nel lontano 1983 una di quelle compagnie di danza contemporanea che hanno fatto la storia, la Compagnia Rosas.

Con Rosas la Keersmaeker, ha creato una quantità impressionante di lavori ottimi e posto le basi della nuova danza in Belgio, nazione fucina di numerose esperienze coreografiche tra le più importanti degli ultimi decenni (basti pensare a Ultima Vez di Wim Vandekeybus, Les Ballets C. de la B. di Platel, Il collettivo Peeping Tom e poi Sidi Larbi Cherkaoui e Damian Jalet solo per citarne alcuni).
La coreografa belga, non ha soltanto contribuito a dare nuova linfa alla danza nord europea, ma ha anche pensato alla formazione del danzatore, fondando nel 1995 il P.A.R.T.S. (Performing Arts Research and Training Studios ), una delle scuole più prestigiose e conosciute per la danza contemporanea, che è stata poi negli anni un contenitore di papabili giovani danzatori per la sua compagnia.
La sua compagnia, residente da anni nel più importante teatro di Bruxelles il Teatro de La Monnaie, si è sempre confrontata con musiche illustri tra le più svariate, da Steve Reich a Mozart, da John Cage a Schönberg, da John Coltrane a Bartok, da Chopin ai Beatles, per  volontà e principio della stessa  Keersmaeker. Per lei infatti l’interazione tra musica e danza non è mai banale e scontato, nessuna delle due è al servizio dell’altra, ma tutte e due concorrono a creare un prodotto unico, a scambiarsi immagini e stimoli, a vivere insieme senza mai prevaricare. La musica quindi ha assunto nei suoi lavori un ruolo fondamentale e prezioso, diventando un valore aggiunto e dialogando con i movimenti a volte in modo preciso e costante, a volte in maniera più dolce e fluida.
Nell’ultimo lavoro, En Atendant, presentato al Festival Equilibrio 2011, il suo punto di partenza è proprio la musica, l’ “Ars Subtilior”: una complessa musica polifonica del XIV secolo caratterizzata da un eccezionale complessità ritmica e notazionale, fiorita ad Avignone negli anni dello scisma d’Occidente, un periodo in cui tra la peste e la rovina della Chiesa andavano via via cadendo i pilastri religiosi, politici e culturali imperanti nel secolo.

L’impatto entrando in sala Petrassi è alquanto destabilizzante. La sala completamente spogliata dellerosas2 sue quinte e del suo fondale rivela il bellissimo legno progettato da Renzo Piano e le uscite di sicurezza con i maniglioni antipanico. Ma la cosa più fuorviante di tutte è la luce. Un pannello, lungo quanto tutta la lunghezza del palco e abbastanza largo, di luci al neon posizionato in alto sul proscenio. Una luce che, oltre ad illuminare quasi tutto il palco, illumina in modo anche un po’ fastidioso lo spettatore. Il pubblico quindi illuminato, perde le sicurezze della distanza provocata dal buio in sala, e si ritrova in una posizione svantaggiosa rispetto ai danzatori, perché costretto ad una visione bilaterale, ad una formula di “guardo e sono guardato” limitato delle poltrone su cui è seduto. Sembra quasi un modo di portare sullo stesso piano di imbarazzo tutte le figure che interagiscono durante lo spettacolo, danzatori, musicisti e fruitori. I danzatori spogliati delle loro sicurezze, le quinte e il fondale, la scenografia inesistente che consiste in una striscia di terra sul proscenio e una panca al lato per i musicisti, i musicisti privati della comodità di una sedia, gli spettatori orfani della loro quarta parete, del loro buio.
Su queste premesse incomincia lo spettacolo della Keersmaeker. I primi cinque minuti sono forse la cosa più interessante della successiva ora e mezza di danza. Un flautista che con una particolare tecnica di respiro riusciva a suonare contemporaneamente due melodie, una introduzione alla complessità musicale della performance, fatta di assonanze e contrasti. E meravigliosa anche la cantante salita sul palco successivamente, che attraverso le sue doti canore ci ha anche fatto apprezzare al meglio le qualità acustiche di una sala, spoglia di tanti orpelli, progettata in effetti più per la musica acustica che per la musica registrata.
I danzatori vestiti di nero e scarpe da ginnastica, minimali e spogli come tutto in questo allestimento, entrano successivamente. Per tutta l’ora e mezza, un tempo, devo dire, troppo lungo per una performance del genere in cui il concetto espresso nei primi venti minuti di spettacolo viene solo ribadito e non sviluppato, si assiste ai movimenti schematici, chiari e troppo strutturati della coreografa, ad  ammucchiate razionali, a camminate artefatte e a corse quanto meno discutibili, per non parlare di un’ossessiva e sempre presente “mano a paletta” che risulta abbastanza frustrante.
I giochi e i dialoghi tra loro riescono poche volte a far sorridere e ad emozionare, sprazzi di individualismo li notiamo forse solo in Cynthia Loemij, peformer di indiscutibili capacità. Per il resto è risultato uno spettacolo troppo pesante e poco lirico, perché poco umano. Nessuno mette in dubbio le capacità di cotanta coreografa, ma a volte bisognerebbe rimettersi al passo coi tempi o comunque mettersi in dubbio per rinnovarsi. E noi attendiamo fiduciosi questo rinnovamento…

Valeria Loprieno

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